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Di suo pugno – Un faro nell’oscurità

Un faro nell'oscurità
di Paolo Pizzo

spadista, Campione del mondo 2011 e 2017
Argento a squadra Olimpiadi Rio 2016

“Non è senza significato che l’istruttore nella scherma sia chiamato Maestro: c’è un valore pedagogico fondamentale in questo sport”.

Cercare di sintetizzare in poche righe il rapporto che ho avuto con i tecnici che hanno accompagnato la mia carriera è complesso.

Sostanzialmente oggi, a 40 anni, posso dire di essere il risultato della combinazione di tutti coloro che hanno plasmato il mio carattere e ampliato le mie competenze riuscendo ad arginare ed indirizzare il barbaro che istintivamente si è sempre celato in me.

Per cui mi concentrerò sulla combinazione di elementi che sono stati evidenziati nello splendido sceneggiato “La stoccata vincente” che ha fedelmente rappresentato la mia vita ed il legame potentissimo che mi univa al maestro Oleg Pouzanov.

Si usa dire che lo spessore umano posseduto da alcune persone ne altera in qualche modo la percezione delle misure.

Il maestro era alto come me (1,81 cm) o forse poco più, eppure sembrava stagliarsi gigantesco ogni sera tra le decine di pedane del Club Scherma Roma.

Il faro nell’oscurità.

Sono arrivato un po’ spaesato a Roma da Catania, ventiduenne con qualche rara esperienza in Nazionale giovanile nel curriculum. Poca roba.

In realtà ero già logorato da mille battaglie finite male.

Ho subito trovato attraente l’enorme tasso tecnico insito nella sua proposta schermistica.

Per me, da lui stesso inizialmente definito “armadio tutto storto che si muove”, era imperdibile l’occasione per apprendere l’arte della spada olimpica da colui che nel nostro ambiente era percepito come un mito.

Portava in dote un curriculum sportivo impressionante, avendo allenato decine di campioni dalla Russia all’Italia. Molti degli atleti di cui da bambino imitavo le gesta erano passati sotto la sua esperta costruzione.

Badate bene, esistono schermidori leggeri ed elastici, eleganti e dalle movenze armoniche. Poi ci sono quelli come me, picchiatore grezzo con un’istintiva propensione alla rissa più che al dialogo, uno di quelli che senti sempre arrivare dal baccano che fanno.

Questa persona, Oleg, deve avere avuto una pazienza sovrannaturale con me, come chi intarsia o crea sculture nel materiale più ostile, giorno dopo giorno con enorme cura ha creato un pluricampione del mondo ed argento olimpico.

Mille volte avrebbe potuto scaricare la sua frustrazione su di me, in uno qualunque dei momenti difficili insieme in pedana e fuori.

In fondo ero uno difficile, sempre incazzato, odiavo tutti perché la Nazionale maggiore non mi vedeva.

In aggiunta, la relazione con la mia compagna dell’epoca non funzionava più e famiglia e gli amici erano rimasti giù in Sicilia.

Ero un allievo complicato ed un pessimo soggetto in sostanza.

Per fortuna c’era Oleg a portare equilibrio, a reggere il mio urto, il bastione e la retroguardia, la conduzione di tutto ciò per cui lottavo e che ancora non aveva trovato senso né realizzazione.

Inizialmente menavo e basta in pedana, menavo ancora e ancora.

Ma qualcosa giorno dopo giorno, settimana dopo settimana cambiava in maniera netta ed incontrovertibile.

Il ghiacciaio russo aveva potenziato il vulcano che ardeva in me, ogni energia fisica e mentale adesso era canalizzata nel gesto tecnico e nell’utilizzo delle leve.

Aveva innestato in me una devastante capacità di sfruttare le capacità motorie del mio avversario. Era una droga per me. Appena ho compreso il quadro ho capito che niente poteva più fermarmi, perché ero già veloce e determinato, adesso ero diventato anche molto abile.

In tutto questo c’è sempre stato un enorme rispetto delle parti, dei ruoli.

Lui il maestro ed io l’allievo.

Anche nei giorni seguenti la vittoria del primo titolo mondiale individuale (Catania, 12 ottobre 2011), in palestra l’aria tra noi era la stessa; noi gente che lavora.

Ognuno nel suo campo senza mai sconfinare.

Chi deve spaccare la pedana (io) e chi direziona e modella la sua creatura (lui).

Sono certo che anche il maestro avrà posseduto le sue debolezze, le sue insicurezze e le sue paure da qualche parte… eppure non ho mai percepito altro che non fosse quel monolite di determinazione e risorse in cui cogliere le singole pietre più preziose per me.

Sempre pronto al consiglio agonistico o personale, solo se sotto mia richiesta quello personale.

Niente di meglio di un tecnico che fa il tecnico.

Solo e soltanto quello.

Ti ho amato professionalmente maestro.

Poi, quel maledetto giorno di un inizio dicembre 2015, te ne sei andato per sempre.

Eri entrato nella mia vita con una progressione lenta ed inesorabile, e sei sparito come un lampo tra le nubi della mia tempesta emotiva.

Tutto per colpa di quella gravissima malattia al fegato che hai nascosto anche al mio matrimonio, due mesi prima di andare via.

Pensavo che tu fossi più forte anche di tutto questo ed infrangibile.

È terribilmente destabilizzante vedere soccombere persone forti a cui sei strettamente legato, perché forse ti aspetti delle cadute da chi è debole, empatico, sensibile, forse.

Però un bravo maestro lascia sempre una profonda traccia. E dal giorno dopo ho continuato la nostra lotta non da solo, ma lavorando con gli allenatori che ti stimavano e che tanto da te hanno imparato.

Da Pisa a Roma, dalla scuola Di Ciolo ad Andrea Giommoni e suo fratello Stefano di sponda.

Sono arrivate la tanto agognata medaglia olimpica (argento a Rio 2016) ed il secondo titolo mondiale individuale nella spada. Solo io come Edoardo Mangiarotti e nessun altro più. Missione decisamente compiuta maestro mio.

So che ti ho reso orgoglioso e come sai, ho pianto per te solo con la medaglia olimpica al collo, mai prima e mai dopo.

Per il resto come avresti voluto ho continuato a menare duro, sempre armadio… ma grazie a te molto meno storto.

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