voice from gymnastics

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Il 18 ottobre 2022 Nina Corradini, ex farfalla della Nazionale di Ginnastica Ritmica, decide di denunciare apertamente abusi e violenze subiti nella sua carriera. Esplode uno dei più grandi scandali nella storia dello sport italiano.

Nina viene seguita da altre compagne come Anna Basta e Giulia Galtarossa. Ma il suo coraggio è contagioso: le testimonianze si moltiplicano e arrivano da tutta l’Italia, includendo anche atlete appartenenti al mondo della ginnastica artistica. Fino ad ora oltre cento le segnalazioni arrivate a ChangeTheGame. Ecco le loro voci, voci di ragazze, mamme e padri coraggiosi, allenatrici. Voci che vogliono essere ascoltate, voci pubbliche, voci di verità.

Buonasera, ho praticato ginnastica ritmica per 10 anni, dagli 8 ai 18. Ho sempre subito insulti, spesso pesanti riguardanti le mie capacità mentali o sul mio aspetto fisico, ma la situazione è peggiorata dal momento che sono entrata nella squadra nazionale di ginnastica ritmica, le “farfalle”. In teoria in un ambiente del genere le atlete dovrebbero essere trattate con maggior protezione, invece era l’opposto. Sono entrata a 15 anni e sono dovuta andar via a 18, spinta al limite in ogni senso. Pesano le ginnaste ogni mattina in mutande in fila indiana, segnando i pesi su un quadernino, e umiliando chi ingrassava da un giorno all’altro. Spesso continuavano tutto il giorno a fare battute, davanti a tutti, dicendo cose come “sei una palla” o “ti sei vista allo specchio?” e queste erano le meno brutali. Ero talmente disperata di dover digiunare (ero nel periodo dello sviluppo) per pesare come il giorno prima che avevo smesso di far colazione, cenare e stavo attenta anche a quanta acqua bevevo, per paura che potesse aumentarmi il peso segnato sulla bilancia. Ad un certo punto ero stremata a causa delle 9 ore di allenamento giornaliere e l’alimentazione inesistente che ho iniziato ad assumere i lassativi. Ho sviluppato una vera e propria dipendenza, per la quale il mio intestino non funzionava più senza, ed ero totalmente disidratata. Mi ammalavo spesso, non avevo più forze, ma almeno pesavo meno. Uno non mi faceva più effetto, quindi iniziai a prenderne sempre di più. Pensavo al cibo giorno e notte, e la sera mi addormentavo piangendo in una stanzetta d’hotel, sperando di non svegliarmi mai più. Le allenatrici sembravano non vedere quanto io stessi male, e non si sono mai risparmiate un commento o una considerazione. Una sera ne presi 4, e il giorno dopo mi risvegliai con due chili in meno, una sete tremenda e svenni nella sala colazione dell’hotel, ero cadaverica, non volevo saperne di mangiare qualcosa, le mie analisi indicavano il ferro inesistente ma le allenatrici mi fecero andare lo stesso in palestra, facendomi i complimenti per il peso perso. Non sapevo più cosa fare per uscirne, avevo imparato il peso di un piatto di pasta (che ormai non vedevo da mesi) di una fettina di carne e perfino di un pezzo di pane. I miei genitori erano lontani, li vedevo raramente, non sapevo con chi parlarne per uscirne perché mi sentivo sbagliata, un peso, e quindi non lo feci mai. Trovai però il coraggio di andarmene, tornare a casa, e solo dopo mesi raccontai tutto ai miei amici e ai miei genitori. Ancora oggi spesso ho l’ansia a mangiare davanti a tante persone, o al ristorante, ma piano piano cerco di superarla. L’abuso psicologico nel mondo dello sport è talmente forte che nessuno ha il coraggio di parlare, vorrei interrompere, o almeno provare a farlo, questo circolo vizioso. Grazie per aver letto.

“Non mi sentivo adatta. Mi sentivo brutta, volevo dimagrire in quel momento volevo sparire ero in imbarazzo: tutte le mie compagne mi fissavano loro durante le esecuzioni, lei le lodava, faceva paragoni fra di noi anche se loro facevano un livello più basso.  Tornata a casa, ebbi un attacco di panico volevo smettere ginnastica non volevo più vedere nessuno ero spenta ero lì davanti a lei non potevo fare niente non riuscivo neanche a parlare non c’è la facevo più”: sono le parole toccanti di una ragazzina, una piccola ginnasta, Ilaria, che ha affidato a un tema il suo disagio dovuto a forme di violenza emotiva e bullismo da parte della sua istruttrice. La sua mamma insieme a quella di una compagna – hanno dato la propria testimonianza all’associazione ChangeTheGame che combatte abusi e violenze nello sport. La ragazzina racconta tutto in un tema che colpisce i professori i quali subito informano la mamma e il papà. I genitori si attivano e portano il caso davanti alla Procura della Federginnastica. “Arrivata in palestra – scrive la bambina – tutte le mie compagne erano insieme, l’istruttrice le aveva mandate a riscaldare. Io e la mia compagna Ginevra eravamo le uniche che dovevano riscaldarsi velocemente per poi provare subito gli esercizi. Finito il riscaldamento, facciamo le spaccate dalle sedie e ci guardavamo. Il nostro umore era cambiato perché sapevamo cosa ci aspettava. Finita anche la spaccata, prendiamo gli attrezzi, cominciamo a ripassare gli esercizi. Arriva il momento in cui dobbiamo farlo davanti a lei, alla nostra istruttrice che fino a quel giorno ci aveva offeso e detto le peggio cose. Tocca a me, avevo ansia ed ero spaventata. Durante l’esercizio comincia a urlare di tutto e di più comincia a chiamarmi in tutti i modi: maiale, porchetta, ippopotamo. Già li ero a pezzi era solo metà esercizio volevo fermarmi non continuare l’esercizio tanto sarebbe solo peggiorato ma non potevo. Alla fine dell’esecuzione mi dice che non ero capace, che ero pesante nei movimenti, che non andavo bene e soprattutto una cosa che mi fece stare davvero male: ‘cambia sport’. Quella voce risuonava nella mia testa, andai in bagno scoppiai a piangere”.

È una settimana che leggo storie di sofferenza, di violenza, di paura, eppure continuo a non sorprendermi. È come se tutte quelle storie fossero la mia, o quelle di una mia amica. È stato come ascoltare una cover di una canzone: il testo rimane lo stesso. Quindi ciò che racconta Maria, 35 anni, ginnasta olimpica, o Teresa, 12 anni, che partecipa al campionato regionale in Liguria, è la mia stessa storia, adesso 32 anni, all’epoca 14, ginnasta di Serie A, alta 1.58 m per 34 kg, così mi diceva tre volte al giorno il display della bilancia bianca posizionata in un angolo del bagno dello spogliatoio. “Voi siete quello che mangiate” ci diceva l’allenatrice. Io allora mi immaginavo una coppa di gelato a tre gusti, così bella, fresca e gustosa, invece no, no, dovevo cercare di assomigliare ad una foglia di insalata, leggera, elegante. Avevo imparato che la pasta di riso Scotti aveva circa 100 kcal in meno ogni cento grammi, e neanche a dirlo, sapevo a memoria le calorie di tutto ciò che mettevo in bocca. Mentre mangiavo contavo. Le calorie di alcuni alimenti le conosco ancora, ed è quasi vent’anni che non riesco a mangiare linguine. Un’estate non venni selezionata per un collegiale regionale perché il mio peso forma non era quello ideale, così dissero a mia mamma, non perché non ero abbastanza brava. Io ero silenziosamente al settimo cielo, quei collegiali erano un incubo. Passano mesi, anni, finché arrivano due scosse. La prima è il medico sportivo che non mi vuole dare l’idoneità a fare attività agonistica, prende mia mamma per mano, la porta in un’altra stanza e le dice che sono troppo magra. Ottengo quel foglio solo con la promessa che avrei finito il campionato e poi avrei smesso. La seconda, una specie di selezione all’ingresso: o fai ginnastica, o studi. In sintesi mi fu vivamente consigliato di non frequentare il Liceo scientifico. Forse è stato l’amore per lo studio che mi ha aiutato ad uscire da un’infanzia a metà e da un’adolescenza azzoppata, intrappolata in un fisico proprio di una bambina, non certo di donna. Eppure, non ho avuto genitori che volevano una figlia campionessa, o assenti, o sconsiderati. Forse con la vista un po’ offuscata da una nube di principi tutt’altro che costruttivi, anzi nocivi, anche a lunga data. Non ero neanche una bambina mossa da una così forte passione, a dirla tutta. Lo facevo perché ero brava ed il mondo dello sport era quello, era così e basta. Dopo un certo livello non si può pensare di divertirsi, mai, era sottinteso. Tutto sommato credo che mi abbiano insegnato non tanto a praticare uno sport, ma a sopportare. Sopportare la fatica, l’infelicità, la solitudine, la mortificazione, il giudizio. Ed era tutto normale. Se mi volto indietro e riguardo tutto con gli occhi di oggi mi sembra quasi un addestramento. Io sono sopravvissuta a questo addestramento, la mia infanzia e la mia adolescenza non del tutto: vedo tanti brandelli sparsi a ricordarmi che mi sentivo spenta, che non sorridevo mai. La ginnastica ritmica è ancora oggi un argomento delle mie sedute di psicoterapia. E chi non se le può permettere? O chi non riesce ancora a parlarne? Chi non si è ancora accorta che quella, per una bambina, non è la normalità? Io, Maria e Teresa siamo di generazioni diverse, parliamo con accenti diversi, non ci siamo mai viste, ma conosciamo benissimo una delle parti più intime delle nostre vite. Negli anni ’90, mi sono detta, non c’era una conoscenza sufficiente, una cultura sportiva adeguata, il nostro era uno sport minore. E oggi scopro che sono passati 20 anni, o forse 40, chissà, e l’allenamento si svolge ancora nello stesso modo, la mentalità non mi pare cambiata, forse non è cambiato proprio nulla, nemmeno con tante medaglie al collo, nemmeno con la popolarità, niente è servito a migliorare. Io, Maria e Teresa, a discapito di quando dica qualcuno, siamo tutt’altro che fragili; anzi, sappiamo molto bene di cosa siamo capaci. Ci avete addestrato alla resistenza: noi adesso, che sia con la nostra voce o anche solo con la nostra penna, resisteremo a chi non vuole che niente cambi e riscatteremo tutti quei sorrisi che non abbiamo mai fatto.
Grazie Nina, Anna, Giulia, grazie a tutte, grazie Changethegame e a chi ci sarà.

Era‌ nata come una passione ed è finita come un incubo. Era partito tutto da “mamma domani uso il nastro in palestra per la prima volta” ed è finita con “non posso mangiare né bere, domani l’allenatrice porta la bilancia e se ho messo su peso mi toccherà correre per un’ora con la fune ed i pesi sulle caviglie, come fanno fare a Giulia (nome di fantasia), che deve perdere peso”. Io sono sempre stata molto sottopeso, ma ero terrorizzata, Giulia era una mia grande amica e temevo con tutta me stessa che ciò che facevano a lei, come ad altre mie compagne, potesse essere fatto anche a me. una volta Giulia era salita sulla bilancia, l’allenatrice ha guardato il peso, poi ha guardato Giulia ed è scoppiata a ridere, una risata umiliante. Giulia scoppiò a piangere ed iniziò a correre. Erano pressioni indirette che però hanno gravato tanto su di me. Ovviamente non sono mancate nemmeno pressioni dirette. una volta mi ero messa in body, me lo ricordo benissimo, la mia allenatrice mi disse “settimana prossima hai gli allenamenti nazionali, dove credi di andare con quel sedere? guarda che vi peseranno!”. Un’estate, una delle mie allenatrici aveva fatto un cartellone con i nostri pesi attuali e quelli che, per lei, dovevamo raggiungere: era tutto fatto senza fondamento scientifico né medico, in base a come apparivamo ai suoi occhi lei aveva deciso quanto peso dovessimo perdere. Quando mangiavo poco venivo elogiata e così mi convinsi che stavo facendo la cosa giusta. la ginnastica era la mia vita, o forse anche di più, ma a causa di tutto ciò e a causa degli inevitabili problemi con il cibo che ne sono conseguiti, ad agosto 2020 ho dovuto smettere. non avevo più forze. da lì è iniziato il declino. Dopo 8 mesi da quando avevo smesso sono stata ricoverata in neuropsichiatria d’urgenza per anoressia. Ero in fin di vita, avevo 30 battiti al minuto e rischiavo l’arresto cardiaco. mi hanno messo il sondino, un tubo che entra dal naso e raggiunge lo stomaco che serve per nutrire. non volevo mangiare. non riuscivo a guardarmi allo specchio, mi sembravo sempre troppo grossa, pesavo 37kg ed ero alta 1,73. mi pesavo 30 volte al giorno. Ero convinta fosse giusto così, o meglio era quello che mi avevano fatto credere fosse giusto. La mia allenatrice aveva fatto diventare la bilancia lo strumento che stabiliva il mio valore. Non ero più una persona, ero solo un numero. Il primo ricovero non è servito a molto. durante questo, infatti, continuavo a vedere i medici come nemici, mentre la voce della mia allenatrice (che ormai dopo anni avevo interiorizzato) mi rimbombava in testa e mi continuava a spingere sempre di più verso la morte. Uscita dall’ospedale mi misero subito in attesa per un altro ricovero in un centro per disturbi alimentari. Quando venni ricoverata in MAC intensivo le mie situazioni erano talmente critiche che non potevo fare nulla, non potevo andare a scuola, non potevo camminare, non potevo studiare, non potevo vivere. I medici, giustamente, mi avevano impedito di fare tutto ciò per salvaguardare la mia vita che stava per essere inghiottita dalla morte. questo centro per disturbi alimentari mi ha salvato la vita assieme alla mia psicologa. tutt’ora non ne sono uscita, sono ancora sulla via della guarigione, ma quest’ultima, che prima sembrava essere diventata quasi irraggiungibile, ora è ad un passo da me. La ginnastica ritmica è uno sport a dir poco meraviglioso, ma che a causa di persone di questo tipo sta perdendo tutto il suo fascino. con il racconto della mia drammatica storia voglio innanzitutto ringraziare Nina, Anna e Giulia per avermi dato il coraggio di denunciare ciò e in secondo luogo voglio spronare tutte quelle ginnaste che subiscono queste violenze a fare altrettanto. non è giusto tutto questo, quando da piccoline ci siamo inscritte per la prima volta in palestra eravamo affascinate dalla musica, dall’eleganza, dagli attrezzi che volavano alti, e da molto altro, ma non di certo da una magrezza malata.

Avevo 12 anni compiuti da pochi mesi quando, per la prima volta, mi scontrai con l’altra faccia della medaglia del mondo della ritmica, quella della quale non parla quasi mai nessuno. Ricordo come se fossero state pronunciate ieri le parole che mi disse la mia allenatrice nella palestra con le travi, quella del sabato. Non ero nella nazionale, ero in una squadra qualunque, quella era la mia passione, non era il mio lavoro. Ero piccola, sognavo di poter volare, ma non sapevo che cosa mi stava aspettando dietro alla porta quel giorno. “Adesso ti sei sviluppata, hai già le cosce molto possenti, stai attenta perché tenderai a ingrassare, devi stare a dieta”. Dieta, per una bambina così piccola questa parola è un mostro. La mia reazione fu quella di rifiutare, il giorno dopo, la pasta al forno che mi aveva preparato la nonna. “devo dimagrire – mi giustificai a me stessa – me l’ha detto M”. pesavo 46kg e mi ero imposta di arrivare alla cifra tonda: 40. Ma non successe, ovviamente. Quell’estate presi 12cm in altezza, raggiunsi i 50kg e io non me lo spiegavo. Sono cresciuta con una mamma che mi preparava pasti estremamente bilanciati, mangiavo verdure a ogni pasto, non pasticciavo mai, non riuscivo a capire come io potessi essere “ingrassata”. Sì perché dopo quella frase per me i 4kg in più sulla bilancia erano quello, grasso. Non erano i muscoli che aumentavano, le ossa che si erano allungate, il corpo che da bimba stava diventando quello di una piccola donna. per me era grasso. Ero una statua, avevo i muscoli disegnati, mi si vedevano le ossa e la tartaruga. Ma nella mia testa ero ingrassata. Chiesi a mia mamma di portarmi dalla nutrizionista, lei mi assecondò perché sapeva che nulla sarebbe cambiato nel mio regime alimentare. e così fu. La dottoressa mi confermò che ero perfetta, mi mostrò che sulla sua bilancia avevo pochissima massa grassa e tutto il resto era muscolo, mi spiegò che l’aumento di peso era normale perché ero cresciuta e perché avevo messo su massa muscolare che, a pari quantità, pesa molto più di quella grassa. Ma io non le credetti. […] Confessai a mia mamma, in lacrime, quello che quell’allenatrice, che era anche una madre, mi aveva detto. E mia mamma ci provò, ci provò con tutta se stessa a sistemare il danno che quelle poche parole avevano causato nella mia testa. litigò con quella persona. Ma non bastò perché lei proseguì per la sua strada. Mi metteva a confronto con le mie compagne di squadra che erano tutte più piccole di me sia in età che in altezza. Mi diceva che loro erano più magre e io iniziai a odiare me per non odiare loro. Che cosa ottenni? L’effetto contrario. Tornavo a casa da scuola e svuotavo nel water il pranzo che mamma mi lasciava, arrivavo a fine giornata affamata e appena ero sola, di nascosto, divoravo tutti i pasticci possibili e immaginabili per poi sentirmi in colpa tremendamente. E via così, in loop. Mangiavo merda e svuotavo nel water il cibo sano con cui mi sarei dovuta alimentare. Fino a che, un giorno, scaricai male lo sciacquone e mamma la sera trovò gli avanzi di pasta e zucchine nella tazza del wc. Mi trascinò di peso da una nutrizionista, voleva prendermi in tempo, ma probabilmente era già troppo tardi perché la mia testa si era ammalata. Non seguii mai nessuna delle indicazioni di quella dottoressa, mangiavo di nascosto sperando che se nessuno mi avesse vista allora non sarebbe cambiato nulla. Presi peso, ingrassai, smisi di piacermi e mi rifugiai nel cibo. Più volte mi misi le dita in gola dopo aver mangiato tre focaccine che compravo di nascosto al bar della scuola. Ero grassa su miei occhi, nella mia testa quindi non ero malata. Non chiesi mai aiuto, o meglio l’aiuto lo avevo, ma non parlavo. Scoprii, anni dopo, di avere un disturbo dell’alimentazione, il cibo era diventato il mio migliore amico e, allo stesso tempo, il peggiore dei miei nemici. Continuai a mettermi a dieta, dieta che non riuscivo a seguire perché ormai ero entrata nel circolo vizioso dei dca. tutto perché, per quell’allenatrice, era fondamentale dirmi a soli 12 anni che sarei diventata grassa perché mi ero sviluppata. […] Quando andai a vivere da sola e mi allontanai dallo sport imparai a mangiare per fame e non più per ossessione, persi tutti i chili che avevo preso, mi sentivo finalmente bene, ma poi in un periodo terribile della mia vita crollai di nuovo sotto al peso della mia testa, il mio dca tornò più prepotente che mai. Ripresi a mangiare poco, ma male, male per davvero. e i chili ricomparvero uno dietro l’altro. mi autoconvincevo di piacermi, di essere perfetta così com’ero, di fatto lo ero perché ogni corpo è perfetto esattamente così com’è, ma non lo ero per come volevo essere io, per come ero sempre stata abituata a vedermi. Ho capito troppo tardi che ogni volta che si prospettava l’occasione di dover mostrare il mio corpo, io andavo in panico. La mia testa inconsciamente ricordava quel sabato in palestra quando, davanti alle mie amiche, mi sentii per la prima volta inadeguata. Sono passati anni e solo oggi, dopo un regime alimentare finalmente bilanciato, posso dire di aver imparato a tenere sotto controllo quella voce bastarda nella mia testa. Da marzo a oggi ho perso 10kg, inizialmente l’ho fatto male, contando ossessivamente ogni singola caloria che ingerivo, sminuzzando il cibo per paura che i pezzi più grossi mi avrebbero portata a diventare più grassa, eliminando quelli che, oggi, sono i miei fear foods. Poi però, per la prima volta da quel giorno di 10 anni fa, ho avuto il coraggio di chiedere davvero aiuto ammettendo il mio problema a qualcuno che si è accorto di me, mi ha presa per mano e mi ha mostrato i miei demoni. Mi ha accompagnata tenendomi la mano mentre, nel terrore, ho reintrodotto qualcuno di quei cibi che mi davano la nausea solo a pensare di mangiarli. Quell’allenatrice in una frase ha acceso una bestia dentro di me, una bestia che non pensavo meritasse di essere curata perché se ne parla troppo poco, o meglio si parla troppo poco di quei disturbi alimentari che non si vedono a occhio nudo. Non ero anoressica, non ero bulimica, ma il mio rapporto con il cibo quel giorno cambiò, mio malgrado, per sempre. Credo che questa sia la prima volta in cui ammetto a me stessa che la ginnastica ritmica da un lato mi ha regalato un sogno ed è protagonista della maggior parte dei miei ricordi più belli, dall’altro però fu l’inizio di un incubo che mi porto dentro ancora oggi. E forse è per questo che, a 15 anni, la abbandonai con le lacrime agli occhi. Scelsi la danza, non avevo il corpo giusto nemmeno per quella all’epoca, ma avevo dalla mia parte una maestra che mi ha sempre guardata nel cuore e non sull’etichetta dei pantaloni che portava incisa la taglia 48. E in quel momento al mio cuore bastava quello. Mi pento ogni giorno di aver abbandonato il mio sogno, mi pento ogni giorno di aver permesso a un mostro di distruggere la mia infanzia e di catapultarmi nel mondo dei grandi. È una ferita che non si risanerà mai, oggi ho solo imparato a conviverci e a darle meno spazio di quello che, nella mia testa, si prendeva da sola. Con tutte coloro che combattono questa battaglia per restituire alle bambine che sognano la possibilità di spiccare il volo con le proprie meravigliose ali.

Se dovessi paragonare il mondo della ginnastica a degli animali non sceglierei le Farfalle, leggere e leggiadre tanto da diventare il soprannome delle ragazze della ginnastica ritmica, ma indicherei in primis il Gattopardo. Questo non per la scaltrezza e l’agilità del felino, ma per alcuni concetti ripresi nel celebre romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” è una famosissima frase del romanzo che fornisce una chiave di lettura per riflettere sul presente, perché il momento che la ginnastica sta vivendo è il risultato delle scelte del passato e dei cambiamenti che di fatto hanno solo abbellito con qualche lustrino un vestito sgualcito. È di questi giorni la presa di posizione, dopo ritmica e aerobica, di ginnaste ed ex ginnaste dell’artistica. Sono stata un’atleta di alto livello e ora sono un’allenatrice. Come le mie ex compagne ho vissuto momenti felici e momenti che solo ora riesco a etichettare come infelici. Non me ne vorrà qualcuno se sottolineo le parole “solo ora”. Non ho realizzato tutto ciò dopo le recenti testimonianze, ma grazie a tre anni di sedute con la mia psicologa che mi hanno permesso di rielaborare quanto subìto e capire come una parte di me avesse assimilato, sommerso e represso certe pratiche. Lo dico per sgombrare il campo da facili accuse o illazioni di chi potrebbe interpretare queste mie parole come il desiderio di rivalsa di una persona che non ce l’ha fatta ad entrare nel Gotha della ginnastica artistica. Sia chiaro, le violenze verbali e fisiche sono sempre state riconosciute da me come tali, ma fino ad ora le avevo imputate ad una mia inadeguatezza, al mio non essere all’altezza delle aspettative. Da atleta mi veniva detto che le violenze fisiche e psicologiche erano per il mio bene, per far sì che non mi facessi male e fossi consapevole del pericolo di certi elementi, se eseguiti senza la giusta concentrazione. Mi veniva anche detto “Tu non devi pensare, devi fare quello che ti viene chiesto”. Il problema è che fino ad ora sono sempre stata convinta che fosse la realtà, che io non fossi in grado di pensare, che addirittura non potessi pensare con la mia testa. Questo ha pesato più di tutto sulla mia persona, più delle privazioni alimentari, più del potermi dissetare solo con lo spruzzino dell’acqua, più di allenamenti estenuanti di prima mattina a completo digiuno, più di pratiche malsane come correre sotto il sole cocente con il K-Way, più di infortuni per sovraccarichi e rischi per la mia salute e potrei continuare con altri esempi della ginnastica che fu, esempi che trascendono il tecnico, come quando un telecronista dopo un mio disastroso esercizio a corpo libero disse in diretta nazionale: “Ora conoscendola si metterà sicuramente a piangere…” (Si è mai chiesto il perché?). Questo probabilmente è il ritratto della ginnastica dei miei tempi, non della ginnastica di oggi dove nelle grandi palestre le bilance sono sparite e ci si avvale di psicologi, nutrizionisti, fisioterapisti ed esperti a 360 gradi. Nel frattempo però una generazione di allenatori, nella quale mi trovo anche io, è cresciuta con la convinzione che l’eccellenza fosse la ginnastica che fu, che i carichi di lavoro e soprattutto le metodologie di allenamento corrette fossero quelle sperimentate nel corso della propria carriera agonistica. Ho fatto un percorso che mi ha permesso di scavare dentro me stessa e vedere i torti e le violenze che ho subìto e soprattutto capire che se un atleta sbaglia non è l’atleta che non va. Di questo chiedo scusa alle mie ginnaste che furono.
Per evitare quanto descritto nel Gattopardo occorre però andare oltre. Nel corso degli anni sono cambiate le metodologie di allenamento, le palestre sono più accoglienti, gli eventi sono più spettacolari si vedono anche ginnaste sorridenti (allenatori ancora pochi), ma certe figure si sono solo mimetizzate. Noi siamo state, passatemi il termine brutto, le cavie per progredire verso una nuova ginnastica. Alcuni camaleonti hanno cambiato il colore della pelle ma restano ancorati ai loro rami e quindi la domanda da porsi per tornare al tema del Gattopardo è: è vero che tutto cambierà oppure tutto rimarrà uguale ma si presenterà solo in una forma diversa?

Sono la mamma di una bambina con il sogno della ginnastica, una ‘farfallina’, Emma, piena di speranza e talento. Leggo con sgomento le denunce che in questi giorni si stanno susseguendo legate al mondo della ginnastica ritmica e artistica, ragazze che hanno deciso di aprirsi e parlare, raccontando la loro storia. Una storia comune ad altre bambine, come Emma.
A soli 13 anni, mia figlia ha sperimentato l’abuso emotivo, il bullismo e l’isolamento da parte della sua istruttrice, riuscendo a parlarne solo dopo mesi con me.
Umiliazioni e mortificazioni pubbliche, di fronte a tutte le compagne, allo scopo di demolirne l’autostima, a tal punto da farla smettere. Un cambio di atteggiamento repentino e traumatizzante da parte dell’allenatrice che è passata dall’incoraggiare Emma al dileggiarla, schernirla ed isolarla. Ma questi comportamenti non erano sporadici e coinvolgevano anche altre ragazzine apostrofate con epiteti come ‘ippopotamo, vitello tonnato, cinghiale’.
Questa istruttrice, con Emma presente chiedeva alla sua amica del cuore di non frequentarla, altrimenti avrebbe fatto la stessa fine, cioè quella di dover abbandonare la ginnastica. “Come vi ho creato, vi distruggo”, diceva.
Mai avrei immaginato che chi insegna sport potesse abusare del suo ruolo in modo così devastante. Lo sport forma il carattere, non lo distrugge. C’ è voluto un anno per recuperare la serenità emotiva di mia figlia.
Nel 2021 ho denunciato questi abusi psicologici alla federazione italiana di ginnastica per dare a mia figlia un esempio di coraggio, per insegnarle a reagire e non subire, a non piegare mai la testa. Sono stata la prima mamma a denunciare, ma nel corso del procedimento si sono unite altre mamme per gli stessi motivi, nonostante io e mia figlia fossimo state completamente isolate, almeno in un primo tempo. Il tribunale sportivo ha condannato l’allenatrice a 45 giorni di sospensione. Benché la sanzione sia blanda, resta nero su bianco il riconoscimento della sua colpevolezza.
Appena costituito il ‘safeguarding office’ il nostro caso viene subito preso in esame, il primo loro caso, ma ancora siamo in attesa di sviluppi.
Cosa è successo dopo la sospensione dell’allenatrice scontata nel mese di agosto 2022? Lei è presidente di giuria a gare regionali, un ruolo comunque prestigioso. Emma ora ha ricominciato, la sua società è una rara isola felice. L’aspetto umano e il rispetto sono al primo posto. Le bambine e le ragazze sono aiutate, sostenute ed incoraggiate, ottenendo risultati eccellenti. Emma ora sa che lo sport non e’ fatto solo di fatiche e sacrifici ma anche e soprattutto di gioia e amore.

Siamo le mamme di due ragazzine di 14 anni con la passione per la ginnastica ritmica! Quello che sta uscendo in questi gg nel mondo della ginnastica ritmica di alto livello non è che la punta di un iceberg che affonda la sua base anche nelle piccole società frequentate da ginnaste senza alcuna aspirazione nazionale come le nostre figlie.
Era dicembre dello scorso anno quando Ginevra e Ilaria, insieme ad altre loro compagne di squadra, hanno iniziato a raccontare a noi genitori alcuni dei comportamenti vessatori ingiuriosi e di umiliazione che la loro allenatrice riservava loro durante gli allenamenti da qualche mese.
“Sembri un maiale che si rotola nel fango o ippopotamo o non farai mai niente nella vita, non andiamo alla sagra della porchetta, per poi passare a sei una miracolata “ed altre umiliazioni dallo stesso tono unite a parolacce. Tutto questo le ha portate a vivere il loro sogno come un incubo da cui non riuscivano a venire fuori tanto da decidere di smettere se non fossimo intervenute in tempo per allontanarle da quell’ambiente e spostarle in un’altra società. Da quel momento è iniziato un calvario fatto di burocrazia, esposti e ricorsi presso il tribunale sportivo conclusosi a luglio 2022 con una sentenza di sospensione di poco più di un mese irrogata alla ex allenatrice.
Soprattutto per quanto riguarda Ilaria, lei piangeva spesso ed ha iniziato a raccontare poche cose, per poi affidare ad un tema scritto a scuola il suo malessere ed il suo dolore, tanto che come mamma sono stata contattata dalla scuola proprio per venire a conoscenza di tutto e per valutare il percorso da seguire. Trovare professori come quelli che ha avuto mia figlia è un dono grande.
Non parliamo di ragazze di interesse nazionale ed è per questo che forse occorrerebbe fare più attenzione; la Nazionale è una sola mentre le realtà piccole come quella dove si ritrovano ad allenarsi la maggior parte delle ginnaste sono molte ed è giusto che le ragazze debbano vivere lo sport che amano in maniera sana. Non è possibile scoprire che le stesse persone a cui affidiamo le nostre figlie per prendersene cura a livello sportivo siano poi le stesse che invece di tutelarle e accompagnarle in un percorso di crescita sportivo ed umano le mortificano e umiliano andando a colpirle psicologicamente approfittando della fiducia delle famiglie e della giovane età delle ginnaste.
Questo nostro messaggio è proprio per invitare tutte le ragazze che hanno subito atteggiamenti simili a venire fuori, a denunciare per dare modo alla Federazione e a tutti gli organi competenti di intervenire.
Noi abbiamo contattato anche il Safeguarding, che era appena stato istituito, perché è molto importante far capire alle ragazze che questi comportamenti non sono corretti e non devono essere accettati per nessuna medaglia e nessuna coppa.
Non c’è riconoscimento più grande della propria dignità.
Nel frattempo, le nostre ragazze proseguono in un’altra associazione dove piano piano stanno ritrovando un po’ di serenità e la gioia nell’allenarsi ed entrare in pedana a gareggiare.

Molte famiglie ci hanno chiesto di raccontare la nostra storia e lo voglio fare nella speranza che sia utile a chi verrà dopo.
Giada ha smesso a 12 anni, lei era una bambina talentuosa, fra le prime 20 ginnaste d’Italia della sua categoria, si allenava da quando aveva 4 anni, ore di palestra tutti i giorni.
Giada e altre sue compagne la notte piangevano dalla fame, lei era addirittura ingrassata perché scoprimmo poi che per supplire alle carenze di cibo causate dalla sua allenatrice, mangiava cibo spazzatura alle macchinette pubbliche nei palazzetti sportivi.
Oggi non mi stupisco affatto dei racconti di queste ore…
L’insegnante di Giada la faceva saltare in continuazione sul tibiale infiammato e la riprendeva col cellulare dicendole che se avesse detto la verità ai genitori, gliel’avrebbe fatta pagare. Solo da pochi giorni ho scoperto (perché Giada non voleva raccontarmelo) che, durante un allenamento, mentre faceva la sgambata con l’elastico legato alle caviglie che passava su una spalla per creare più attrito, la sua allenatrice le fece lo sgambetto sulla gamba d’appoggio. La bimba cadde con violenza sull’osso sacro e ancora oggi ha problemi alla colonna, il rischio in questi casi è anche di rimanere su una sedia a rotelle per tutta la vita. Mia figlia è stata umiliata con parole come: i tuoi genitori sono due st…, ti hanno mollata qui, a loro non frega niente di te, io non ti ho scelta, sono stati i tuoi genitori a scaricarti qui da me… Addirittura, la sua amica Maela è stata picchiata con le clavette su un braccio…”.
Ora – commenta – leggo e rileggo il comunicato del 30 ottobre 2022 della federazione dove dice che di questi problemi si interesserà la procura federale, ci sarebbe da ridere se la cosa non fosse molto seria. Perché noi ci siamo passati per quella procura federale, ci rivolgemmo alla federazione pensando che di sicuro avrebbero protetto delle ragazzine di 12 anni appena compiuti, salvo poi scoprire che cercarono di tutto pur di proteggere il loro sistema malato. Una farsa.
Tuttavia mi sento di chiudere lasciando delle parole di speranza. Ancora oggi abbiamo degli amici conosciuti nell’ambiente, grazie a questa esperienza Giada oggi ha tante amiche, una in particolare, Sofia, la sua amica del cuore, loro si frequentano spesso e anche noi genitori ci frequentiamo, veramente. Anche il Papà e la mamma di Sofia sono nostri amici del cuore… amiche come Maila che sarà per sempre nel nostro cuore, allenatrici bravissime con le quali si lavora e si fa agonismo in armonia… ragazze fantastiche come Sofia Raffaeli, nostra campionessa del Mondo… potrei continuare ore e ore… perciò alle ragazze dico, non mollate, la ginnastica ritmica è uno sport bellissimo, vi auguro di realizzare i vostri sogni, ma sappiate che i vostri sogni si realizzeranno già facendo semplicemente sport… è il viaggio che ricorderete, più dei risultati.

Sento profondamente il bisogno di offrire la mia testimonianza su quanto sta avvenendo nel modo della ginnastica ritmica. Premetto che la mia esperienza non sarà completa, in quanto alcune persone non desiderano essere citate, nemmeno in forma anonima. Entro nel mondo della ginnastica ritmica casualmente, per qualche anno frequento una palestra non di spicco (esperienza non proprio positiva, ma almeno priva di atteggiamenti violenti) e poi, dopo il 2010, approdo ad una società di alto livello. Prima svolgo solo attività di piccolo supporto logistico, poi, in breve tempo, entro a far parte del gruppo dirigente della società, in diversi ruoli per circa 5 anni. Ho preso anche l’attestato di tecnico di 1^ livello. Non mai voluto seguire un corso, e non ritenendomi sufficientemente preparata tecnicamente e pedagogicamente a svolgere tale ruolo ero di supporto, su alcuni aspetti, dato il mio passato sportivo. Questa è la premessa.
Passiamo al dunque, a ciò che mi tormenta ormai da qualche anno e che avevo tenuto sospeso dentro una parte della mia coscienza, e che quello che sta accadendo in questo momento mi sta aiutando ad affrontare. Con dolore, tanto dolore. Una me che non accetto, che non voglio, che vorrei cancellare, ma con la quale devo fare i conti.
Ho assistito a maltrattamenti di bambine e adolescenti, all’interno della palestra che frequentavo senza fare praticamente niente. Ritenendolo, di fatto, “normale”…: serviva alla crescita psicologica ed emotiva delle atlete, che fossero di medio, alto o altissimo livello (anzi quest’ultime tutto sommato erano meno maltrattate delle altre – temevano che andassero via e invece “servivano”). La quotidianità era “testa di cazzo, idiota, faccia di culo, handicappata motoria, non sai fare un cazzo, non vali niente, sembri un maiale, i tuoi genitori sono la tua rovina, orfane, le voglio le ginnaste.” e tante altre cose che non ricordo più.
L’allenamento dalle 10.00 alle 16.00, significava non mangiare. Se finiva alle 17.00 avevi speranze… alle 18.00 od oltre era sicuro, forse, se l’allenatrice non si scordava… è successo anche questo… Mi è capitato spesso di frappormi tra la ginnasta presa di mira e l’allenatrice. Di solito se c’ero io con lei la lasciava in pace… questo è tutto ciò che ho fatto. Ma non è abbastanza.
Allora mi sembrava giusto. Sì, qualche volta insisteva un po’ troppo e ritenevo giusto smorzare un po’, ma sostanzialmente ritenevo giusto il suo metodo. Sarebbero diventate più forti, più capaci di affrontare la vita, più toste.
Ma invece era solo violenza. Violenza pura a danno di bambine. In molti penseranno che potevo dirlo allora, potevo denunciarlo allora, che dopo è facile. No, no e no. Non potevo dirlo allora. Dovevo procurarmi prove, e nel momento in cui ho capito ero talmente scioccata da quella che ero da voler solo scappare. Nessuno mi avrebbe appoggiato… So che è difficile da credere, ma alla fine ti convincono che quello che fanno è giusto e normale per l’agonistica. E poi non è stato facile affrontare la mia coscienza. È il giudice più severo che abbia incontrato nella mia vita. Più degli insulti, più dei giudizi negativi, più della pena, più della rabbia, più di qualunque cosa negativa che io possa ricevere e meritare…devo affrontare la mia coscienza, e dopo quella, veramente poco mi fa paura, forse, solo la vergogna per quello che non ho fatto e che avrei potuto e dovuto fare. E vorrei ricordare, che si parla di ciò che ci fa male o ci ha fatto male, quando si è pronti, non a comando…a volte si riesce subito, a volte ci vogliono anni, a volte non si riesce mai, purtroppo…
Una cosa sola vorrei aggiungere, che non riguarda la mia storia, ma che mi ha colpito e mi preoccupa… vedo post di ginnaste ed ex ginnaste della nazionale scrivere che loro non vivono o hanno vissuto vessazioni. Premetto che non so cosa sia successo in un passato remoto o recente a Desio e fino a che non vengono accertati i fatti, in questo Paese vige la presunzione di innocenza, ma mi pongo una domanda: non è che hanno talmente introiettato i comportamenti abusanti nel loro io, da ritenerli “normali” in massima buona fede? Mi sorge questa domanda, perché parlando con persone che hanno visto ciò che succedeva nella palestra che ho frequentato e dove ho visto l’orrore che ho descritto, mi sono resa conto che neppure ora “percepiscono” quanta violenza ci fosse. Forse non riescono ad ammettere con se stessi di esserne, in qualche modo, stati complici.
Sento il bisogno di scrivere anche su un altro aspetto. Ho letto alcuni commenti negativi sui genitori delle bambine, adolescenti e ragazze sottoposte a violenze fisiche e psicologiche. E vorrei ricordare che tutti i genitori commettono errori, e su molte cose, ma – anche ammesso che in alcuni casi abbiano sbagliato – il loro errore non assolve i veri responsabili e trovo inaccettabile che si sminuisca l’orrore commesso da un insegnante a cui un genitore ha affidato la propria figlia, con la scusa che questo abbia tollerato (e vi assicuro che vi inducono a credere che sia giusto così) o che non se sia accorto. Un altro motivo di delusione e rammarico.
Non facciamo che questa vicenda sia un’occasione persa, non permettiamolo.

La personalità è scomoda
È più facile plasmare una bambina a proprio piacimento…ed è per questo che in tenera età (5-6 anni) le bambine dei corsi vengono scelte dalle allenatrici più esperte. Non solo qualità fisiche…ma anche indole…
Gran lavoratrice
Non parla mai
Non interrompe
E vengono scelti anche i genitori…ebbene sì…
Come sono fisicamente? Longilinei? Rompiscatole? Puntigliosi?
Perché la minaccia è normalizzata:
dal semplice “ti metto in fondo alla fila se non ti alleni bene”
al “creiamo questa formazione così nascondiamo Tizia per non far vedere il culone che ha” (diventi un problema per la tua squadra…ne va del risultato della tua squadra)
“stai bene in linea altrimenti nemmeno le tue compagne riescono a coprirti!” (quindi non solo sei grossa ma non sai nemmeno stare in formazione)
Al “neanche in tuta sugli spalti ti posso portare in gara”…meglio non farsi vedere finchè non si ritorna in forma…
Le ginnaste di alto livello sono molto consapevoli…tanto consapevoli dei difetti (da nascondere) e poco dei loro pregi.
Alle tecniche chiedo:
Rompiamo questo muro di omertà. Riconosciamo le mele marce di questo sistema e agiamo DIVERSAMENTE.
Dobbiamo far in modo di normalizzare la disciplina, la resilienza nel lavoro quotidiano finalizzata al raggiungimento di un obiettivo SENZA ritorsioni di qualsiasi genere.
Invece di prendere esempio da figure che pur di essere all’apice si comportano in modo dittatoriale e poco etico… Fermiamoci un attimo e riformuliamo i nostri allenamenti partendo dalle parole…potrebbe essere utile un corso di comunicazione…le parole giuste per spronare un bambino le conosciamo? O sappiamo solo spronarli a suon di ritorsioni?
Creiamo un metodo di lavoro tutto nostro! Abbiamo raggiunto le vette del mondo negli ultimi anni…ora sappiamo che non abbiamo niente in meno delle ginnaste dell’est.
Creiamo un metodo di allenamento più al passo coi tempi, più stimolante e sensibile. Che tenga conto della personalità individuale, della crescita di un individuo sportivo che potrebbe voler fare il nostro stesso lavoro…che potrebbe allenare per ore nostra nipote… Vorremmo mai vedere scene come quelle che si leggono in questi giorni su nostra nipote architettate da una nostra ex allieva?
La palestra deve essere una palestra di vita.
È vero che crescere le nuove generazioni diventa sempre più difficile…perché i nostri giovani atleti hanno grande personalità e se ce l’hanno è perché dietro c’è una famiglia (attenta e probabilmente rompiscatole) che è riuscita ad assecondare un’anima diversa dalla loro…senza sopprimerla…
È per questo che tante ragazze in questo momento stanno tirando fuori il coraggio. Ragazze con personalità carismatiche.
Il coraggio di cambiare. Quello lo dobbiamo avere anche noi allenatori!

Ho iniziato ginnastica ritmica a 4 anni, la carriera agonistica a 8 e ho smesso alla soglia dei 13. Le continue vessazioni e violenze psicologiche subite in quegli anni (così delicati per la mia crescita) hanno segnato la mia vita in modo indelebile. Per me rimane un trauma difficile da elaborare, nonostante gli anni di terapia che ne sono seguiti. Ho ancora molti vuoti di memoria ma ciò che ricordo molto vividamente sono i risvolti che ho subito sulla mia pelle. Tendenze depressive: Dall’età di 8 anni ho cominciato ad andare a letto, dopo un pomeriggio passato in palestra ad allenarmi, cercando di addormentarmi in spaccata tra le lacrime. In quei momenti immaginavo di scrivere una lettera di addio alla mia allenatrice. Dettavo nella mia mente quelle che dovevano essere le mie ultime parole prima della morte, che al tempo ero in grado di percepire solo come assenza di vita. Questo rituale è andato avanti per anni, ed è cominciato il giorno stesso che la mia allenatrice mi disse che non sarei mai potuta diventare una ginnasta professionista e che era inutile, per quanto mi impegnassi, dovevo rinunciare al mio sogno. Ripeto, al tempo avevo appena 8 anni e vivevo per quello sport. Ricordo anche che ero appena stata “scelta come ripiego e solo perché diligente e affidabile (non perché meritevole)” per partecipare alla mia prima gara. Ci tenne molto a chiarire questi aspetti. Con lei era così, ogni cosa che ai miei occhi era un traguardo lo doveva trasformare in qualcosa di deludente. Non a caso nelle mie lettere immaginarie mi dispiacevo che non mi fosse mai stata concessa una possibilità e che tutto il mio impegno fosse sempre passato inosservato. Impegno mirato, non solo a migliorare le scioltezza fisica, ma anche nel dimagrire. Alimentazione: Ogni settimana dall’età di 8 anni ci pesava sulla bilancia e ci controllava i quaderni di scuola perché diceva “una vera ginnasta è tale solo se precisa e diligente anche fuori dalla palestra”. Inutile dire come questo abbia inciso sui disturbi di ansia di cui soffro e sul mio approccio allo studio. Però sono stata fortunata, solo per un breve periodo ho sofferto di bulimia. Mi ero così debilitata che avevo continui svenimenti, sono stata ricoverata 1 mese al […] a […] e mi hanno dimesso con la diagnosi “ansia da prestazione” riconducendo ad un problema psicologico le mie manifestazioni fisiche. Al tempo avevo 11 anni e sono convinta che le parole della mamma di una mia amica abbiano giocato un ruolo fondamentale nel salvarmi dal disturbo alimentare. Per la prima volta qualcuno capì che mi sentivo in un corpo sbagliato perché troppo robusto e mi disse semplicemente ” ma cosa dici […], tu hai un corpo stupendo”. Questo apprezzamento ha fatto scattare qualcosa dentro di me, è come se mi avesse riportato alla realtà e da quel momento non mi sono mai più procurata il vomito. D’estate partecipavamo ai centri estivi, quindi giornate intere passate con l’allenatrice. La mattina andavamo in piscina o al campo scuola e al pomeriggio allenamenti. Eravamo continuamente sorvegliate durante i pasti. Ricordo che anche mangiare i pinoli che trovavamo ai piedi degli alberi era motivo di sgridate. Dovevamo farlo di nascosto. Io ero la bambina di corporatura più robusta all’interno della mia squadra, ricordo che vivevo con grande ansia il momento di ordinare i nuovi body. In squadra con noi c’era anche un’altra bambina molto alta e ricordo che la nostra allenatrice diceva sempre “ad […] e […] prendiamo una taglia più grande, ad […] perché è alta, ad […] perché è grassa”. Uguale quando si trattava di comprare le tute societarie, ero sempre costretta a prendere una taglia più grande “perché così si sarebbero viste meno le mie forme tanto disdicevoli” peccato che in tutte queste tute ci cadevo letteralmente dentro. Era un continuo conteggio di calorie, di elenco di cibi vietati, di battutine cattive davanti a tutte. Grida, minacce, sfuriate di rabbia, denigrazioni e insulti: Le minacce erano sempre le stesse: ti caccio dalla squadra, ti caccio dalla palestra, ti impedisco di partecipare alle gare…Solo una di queste minacce si è poi concretizzata nella vita reale. Non concesse il nulla osta societario ad un’allieva che voleva passare ad un’altra società. Per una ginnasta questa è una vera e propria tragedia perché che ti vincola per un anno a non poter gareggiare, e un anno nella vita di una ginnasta è un’eternità, considerato che prima degli 8 anni non si può gareggiare e che intorno ai 20 si è già considerati vecchi. Mentre eseguivamo gli esercizi, durante il riscaldamento, quando eravamo lente nello spogliatoio, le grida erano una costante. Ci gridava sempre e spesso a me questa cosa faceva “chiudere il cervello”, mi rallentava i pensieri e mi impediva di capire cosa stesse cercando di “comunicare”. Motivo per cui mi sentivo ripetere molto spesso che ero stupida. Questa voce nella testa mi accompagna ancora oggi. Le insicurezze e il senso di inadeguatezza che mi ha procurato è difficile da spiegare. Non mi sento mai all’altezza delle situazioni e ho la sindrome dell’impostore, per cui ogni traguardo raggiunto sento che non mi appartiene o molto spesso non lo riconosco nemmeno come tale. La voce della mia allenatrice è diventata quella che sento nella mia testa, è la stessa che ad ogni esame mi ripete che non ce la farò. Ci faceva vivere ogni gara, ogni saggio come l’esibizione della vita, il momento in cui dovevamo mostrare il nostro valore. Questa ansia da prestazione indotta è quella con cui devo fare i conti ogni giorno, anche nel contesto sociale. Tutte queste consapevolezze sono il frutto di un lungo e costoso lavoro di psicoanalisi che è iniziato all’età di 16 anni (ora ne ho 28), ci tengo a specificarlo perché non sono solo mie valutazioni personali ma anche il risultato del lavoro di uno specialista (in realtà più di uno). Dopo ogni gara, nonostante la prima posizione raggiunta, ci costringeva a riunioni serali per elencare tutti gli errori commessi con l’intento di toglierci il sorriso e il momento di festeggiamento post gara. Qualsiasi forma di gioia veniva subito trasformata in qualcosa di negativo. Se vincevamo “era solo fortuna”. In particolare a lei dava fastidio se ci sentiva ridere, dovevamo sempre essere serie, controllate e composte. Le riunioni per elencare tutti gli errori e in sostanza cogliere l’occasione per dire che non valevamo niente, continuavano anche i giorni successivi la gara. Qualche tempo dopo aver gareggiato alle nazionali di serie C a […] ricordo che ci ritrovammo tutte a casa di una di noi per leggere insieme i risultati della gara. Ricordo che fummo estremamente soddisfatte della votazione e della posizione raggiunta e cominciammo a saltare sul letto per la gioia. Lei sedò subito gli animi facendoci il solito elenco di tutti gli errori commessi facendoci sentire fuori luogo. Il messaggio era chiaro: non aveva senso festeggiare per un risultato così deludente. Niente era mai abbastanza. Per quanto riguarda gli appellativi con cui ci chiamava, ognuno aveva il suo cucito addosso. I più frequenti: Handicappata, stupida, malata, brutta. Ogni giorno ci sentivamo dire: non ti si può guardare, sembri stupida, non vali niente, non sei all’altezza, non sai fare nulla, dovresti vergognarti. Chissà quante altre cose ancora ci diceva e che io ho completamente rimosso per proteggermi. La cosa più assurda è che da tutti questo veniva considerato normale. Mia sorella maggiore (6 anni in più di me) si allenava con me, nella stessa palestra, negli stessi orari. Si ricorda benissimo che gli insulti, le grida e le vessazioni erano tutte concentrate su noi più piccole e mai una volta che sia intervenuta in mia difesa. Di fatto anche per lei quei comportamenti erano normalizzati e tipici di quello sport. Della serie, se non vuoi sentirti dire queste cose, non devi fare questo sport. In tutto questo credo anche che andrebbe notato che le gare a cui partecipavamo erano per lo più di medio/basso livello (serie C), sono quindi la prova vivente che questo tipo di comportamento/educazione prescinde di fatto il livello agonistico delle atlete. Per quanto riguarda gli appellativi con cui ci chiamava, ognuno aveva il suo cucito addosso. Ricatti psicologici: Un’altra tecnica che metteva in atto erano i ricatti psicologici. Ci illudeva con false promesse (interviste, set fotografici, spettacoli, gare di categoria), che puntualmente non rispettava fornendo come spiegazione che non eravamo state abbastanza brave alla gara o durante gli allenamenti. Solo una volta ci portò ad una selezione per entrare in squadra regionale. Ci disse che nessuna di noi era stata presa. Solo dopo mesi si vendicò rivelando che una di noi aveva passato le selezioni ma che era troppo tardi per rivendicare il posto. Punizioni corporali, pizzichi a unghie strette sui glutei fino a lasciare il segno perché sentendo il dolore ci saremmo ricordate di stringere i glutei, continuare a tirare gambe e schiena anche quando battevamo i pugni a terra per il dolore. Ci diceva sempre che quello era niente in confronto a quello che aveva dovuto passare lei da giovane: piedi scalzi nella neve come punizione e svenire in silenzio per dolore e fiacchezza da digiuno. In qualche modo faceva passare il messaggio che avremmo dovuto esserle grate e noi ci sentivamo proprio così. Fin da bambina ho sviluppato la tricotillomania, la mia forma si limita all’arrotolare, strofinare sulle labbra e succhiare i capelli. E’ una cosa che tutt’ora faccio e che metto in atto senza rendermene conto, mi dà sicurezza e tranquillità. Ovviamente questa cosa era motivo di punizione perché “era una cosa che faceva letteralmente schifo e che era da malati”. Dovevo venire agli allenamenti con lo chignon e con i capelli perfettamente in ordine in modo da non poterli toccare. Ricordo che andavo anche a letto con i capelli tirati e raccolti in cipolla perché l’allenatrice mi diceva che così avrei smesso di giocherellarci, prima o poi con la disciplina avrei superato quella cosa tanto strana. Questo mi procurava mal di testa e stempiamento. Ricordo che vivevo con profondo disagio l’arretramento dell’attaccatura, per cui, tra l’altro, venivo spesso derisa dentro e fuori dalla palestra.Ambiente bigotto: Tutto ciò che riguardava lo sviluppo e la crescita (seno, ciclo, interesse per i ragazzi, truccarsi, coltivare amicizie) veniva trattato con disprezzo. Dopo aver lasciato ginnastica, ho saputo tramite le mie amiche che hanno continuato, che era solita sparlare di me dicendo che ero una poco di buono (13 anni al tempo, avevo iniziato a truccarmi e avevo sviluppato). Le ragazze con il seno prosperoso venivano trattate molto male e anche le mestruazioni erano un argomento scomodo. Lei ci diceva sempre che aveva sviluppato a 18 anni, come la maggior parte delle atlete professioniste. Questo non faceva che rafforzare l’idea che fosse immorale e sbagliato precedere questi tempi. Isolamento sociale dentro e fuori dalla palestra: Quando eravamo alle gare ci impediva di socializzare e quando accadeva che qualche altro tecnico societario si avvicinasse a fare i complimenti a qualcuna di noi, lei la prendeva particolarmente male. Secondo lei gli apprezzamenti ci avrebbero reso meno produttive, ci avrebbero fatto “adagiare sugli allori”. Quando cominciai ad allenarmi con un’altra società di ginnastica (nata da poco) capitò di ritrovarmi in gara contro le mie ex compagne di squadra. Anche in quel caso l’allenatrice impedì alle mie amiche di venirmi a salutare. Ci guardavamo da lontano e solo per brevi momenti, nessuna di noi, anche in quel caso, osava infrangere le leggi non scritte. Lo schema era sempre lo stesso: a turno c’era una prediletta che riceveva tutte le sue attenzioni, una che veniva presa di mira e che subiva i trattamenti peggiori e poi le altre (in cui io mi colloco) che risultavano invisibili e a cui non si dedicava tempo. Con questo intendo dire che non ci veniva data l’occasione di provare gli esercizi con la musica e quindi di ricevere le correzioni. Fisicamente relegate ad un lato della palestra. Ed è così che alimentava in noi il desiderio di ricevere anche solo un insulto, in qualche modo avrebbe significato che ci vedeva. Ci parlava male di alcune compagne e ci fomentava ad emarginarle perché “rovinavano la squadra” e noi pendevamo dalle sue labbra, riconoscendo in lei anche una figura materna. Quindi non solo gli insulti ma anche l’emarginazione e indifferenza erano uno strumento di punizione. A pochi giorni delle nazionali cacciò dalla squadra una delle ragazze in questione, perché “non si impegnava abbastanza”. L’atmosfera era delle peggiori in palestra, l’allenatrice diede di matto, non riesco a ricordare cosa disse ma ricordo che le urla e i contenuti erano completamente fuori controllo e, nonostante quelle urla non fossero dirette a me, ero talmente spaventata che cominciai a respirare a fatica. Solo con il tempo mi resi conto che quello fu probabilmente il mio primo attacco di panico. Al tempo avevo non più di 11 anni. Una dinamica chiara era quindi anche quella di metterci l’una contro l’altra all’interno della squadra in modo da farci sentire sole. Ognuna di noi era sola in lotta per conquistare l’attenzione della nostra allenatrice perché era così che ci aveva insegnato a misurare il nostro valore come persone, oltre che come ginnaste. Lo schema di bersagliare una e lodarne un’altra, da una parte ci dava l’illusione di sentirci sollevate perché non eravamo l’oggetto della sua rabbia e dall’altra ci faceva sentire un fallimento perché non meritevoli delle sue attenzioni. Il tutto veniva alimentato dalle competizioni a cui dovevamo sottostare per decidere chi avrebbe portato in gara un determinato attrezzo. Io ero sempre in competizione con una delle mie migliori amiche, dovevamo imparare gli stessi esercizi e poi esibirci per conquistare il nostro posto in gara. Con gli occhi di oggi non credo fosse un caso che alimentasse queste competizioni soprattutto là dove percepiva un rapporto più stretto. Una volta mi ricordo che scoppiai a piangere dopo che scelse l’altra ragazza al mio posto. Lei di tutta risposta mi disse che piangendo dimostravo di essere anche stupida perché avrei già dovuto sapere che non ero all’altezza. Tutto ciò che riguardava la crescita e l’affermazione come individuo veniva visto male e ostacolato, questo non faceva che alimentare anche il nostro isolamento sociale al di fuori della palestra. Durante gli anni delle medie si creò un vero e proprio scollamento tra noi e i ragazzi della nostra stessa età. Io soffrivo per la mancata vita sociale e per le difficoltà di inserimento nelle dinamiche dei nostri coetanei. Tutte le ragazze cominciavano a truccarsi a mostrare interesse per i ragazzi e a noi veniva insegnato a reprimere tutto perché indecoroso e fuorviante. Una volta esultai davanti all’allenatrice perché ci aveva appena comunicato che avremmo avuto un sabato libero. Esultai perché nella mia testa vedevo la possibilità, per una volta, di uscire con i miei compagni di classe. Lei mi giudicò immediatamente mettendomi in ridicolo davanti alle altre, dicendo che ormai non ero più quella di un tempo e che stavo diventando una poco di buono. Nel manuale non scritto della perfetta ginnasta, tutto ciò che non è ginnastica deve essere allontanato e sdegnato. Non eravamo bambine, e poi adolescenti, come le altre. La manipolazione emotiva della nostra allenatrice ci portava a vedere male cose totalmente sane e naturali, che fanno parte della crescita di ognuno di noi. Dopo aver smesso ginnastica, così da un giorno all’altro, mi sono ritrovata in primo liceo senza aver mai vissuto una vita sociale. Ero completamente fuori posto in ogni circostanza, non capivo le dinamiche dei miei coetanei, ma ero ipervigilante “grazie” all’ “educazione” ricevuta dalla mia ex-allenatrice. Capii presto, solo guardando e ascoltando, quali fossero le cose di tendenza agli occhi dei miei coetanei e così cercai di inserirmi. Come prevedibile il processo fu molto lungo e doloroso. Anche su questi risvolti è molto importante far luce. Questo tipo di comportamenti abusanti che si consumano all’interno delle palestre, rendono la ginnastica uno sport totalizzante che investe ogni aspetto della vita delle atlete, anche le capacità relazionali (amicali e amorose). Emarginazione e indifferenza La punizione più grande ai nostri occhi rimaneva comunque l’indifferenza. Al tempo mi ero convinta che ricevere gli insulti era una forma di attenzione. Eravamo abituate agli strilli, agli appellativi, alle umiliazioni pubbliche e alle punizioni. A sentirci dire che facevamo schifo e che puzzavamo.

Prima di iniziare, vorrei ringraziare tutti coloro che si sono esposti e stanno portando avanti questa battaglia. State dando voce a tutt* noi che di voce non ne avevamo e non ne abbiamo mai avuta, fino d’ora. Grazie a voi possiamo affrontare con coraggio e determinazione i fantasmi del passato, e, provare, finalmente, a liberarcene. Mi chiamo […], sono una ricercatrice a […] e ex ginnasta. Ho praticato la ginnastica ritmica agonistica dai 7 ai 19 anni, ultimi tre dei quali viaggiando verso un’altra città. La ginnastica ritmica è stata per me il mio più grande amore, la mia più grande passione e il mio più grande sogno. Al tempo stesso, è stata la mia più grande fonte di sofferenza. Tutt’ora difficilmente trovo attività che mi facciano brillare gli occhi come un tempo (e segretamente ancora oggi) faceva la ginnastica. Il mio pensiero ad essa si accompagna sempre con un misto di sensazioni. I sentimenti che più riaffiorano, però, sono di grande amarezza e sofferenza: per come sono le cose sono andate, per le ingiustizie e per come le mie ali di ginnasta, ma soprattutto di giovane donna, siano state volontariamente tagliate a brandelli, e distrutte lentamente nel corso di molti lunghi anni. Con questa lettera vorrei raccontare la mia storia con la ginnastica ritmica, sperando che questo possa essere utile a far luce su situazioni di abuso che avvengono in gran parte delle palestre italiane. Nei giorni in cui sono venuta a conoscenza dell’associazione ChangeTheGame, e ho iniziato a leggere le testimonianze delle altre ragazze, ho iniziato a maturare il desiderio di poter fare anche io qualcosa. Leggere le testimonianze mi ha dato forza, e mi ha fatto sentire meno sbagliata. Nel capire queste ragazze, mi sono sentita meno sola, in un dolore e degli effetti che fino ad ora erano stati molto solitari. Per anni non ho voluto parlare di quel periodo e di quella persona. Immagino per auto-protezione, ho rimosso gran parte dei ricordi. In questi giorni, quindi, ho cercato di fare uno sforzo attivo e cercare di ricordare cosa accadesse. Come risultato, ho avuto un forte attacco di emicrania, che è durato cinque giorni. Trascriverò quindi qui, quel poco che ricordo di quegli anni, in ciò che si viveva in palestra, ma soprattutto sugli effetti di questi abusi nella me di allora e nella me di oggi. Mettere per iscritto questi anni della mia vita rappresenta un grande sforzo psicologico, ma sono consapevole di come questo sforzo possa beneficiare non solo me, ma anche e soprattutto tutti i bambin* e ragazz* che si sono trovati e ancora si trovano in situazioni di abuso. Da febbraio 2022 sto svolgendo un percorso terapeutico. La mia psicologa, in una delle prime sedute, non avendo ancora chiaro quanto importante e grave fosse il mio rapporto nei confronti della mia prima allenatrice […], mi ha chiesto di provare a scriverle una lettera. Da lì a poco tempo, ha capito quanto difficile per me fosse solo parlare di questi anni della mia vita e ha ricalibrato le tempistiche. Dopo circa dieci mesi di terapia, eccomi quindi qui – cercando di mettere nero su bianco la mia esperienza. Spero mi perdonerete il formato “lettera”/diario che questa denuncia avrà – ma questo formato aiuterà anche me a rivivere e, auspicabilmente, elaborare questo periodo.

Fase 1 – La scoperta della ginnastica e gli anni da allieva

Ricordo ancora la prima volta che entrai in palestra. Avevo pantaloni in velluto e capelli sciolti – non l’outfit ideale per una lezione di ginnastica. Mi ricordo di essere stata molto contenta di quella prima lezione, mi ero divertita così tanto. Unica cosa, a differenza delle altre bambine, non ero stata in grado di fare la capovolta – per paura, non per altro. Allora, da lì alla lezione successiva, mi misi di punta, e sul lettone dei miei genitori provai e riprovai, per giorni. Alla lezione successiva, quindi, ero in grado di fare la capovolta. […], stupita dalla mia determinazione, ma anche delle mie doti fisiche, chiamò da parte me e mia madre e ci disse che mi avrebbe voluta nella sezione pre-agonistica. La volta dopo, quindi, arrivai un po’ prima e assistetti all’allenamento delle “grandi” che allora erano in serie A. C’era […] in musica, stava provando un esercizio con la fune. Rimasi letteralmente stregata – sembrava stesse volando, sembrava davvero fosse una farfalla. Quello fu il mio grande colpo di fulmine con la ginnastica. Inizia ad allenarmi con la pre-agonistica e poi, da lì ad un anno, con la sezione agonistica. Iniziarono quindi gli allenamenti giornalieri. Sulla pedana di prova si alternavano in musica le bambine più grandi di me, stavano provando gli esercizi della serie C. […] non era cattiva con me allora, ma lo era con coloro che gareggiavano. Mi ricordo che urlava ad […] di essere un bufalo. Ce l’aveva sempre con lei, mentre con […] era un angelo. Ricordo chiaro e tondo un momento in cui mentre stavano provando l’esercizio di squadra, […] si accanì di nuovo con lei e lei corse in bagno piangendo. Di lì a pochi mesi quella sarebbe stata una scena abituale per me da osservare, per ginnaste della mia stessa squadra. Di lì a poco io e le mie altre compagne diventammo la squadra. […] smise, […] ebbe un problema fisico molto grave – anche lei lasciò. Per me la vita ginnica inizialmente non fu molto difficile. Ero brava, bel fisico, alle gare andavo bene. Tutto sembrava andare in maniera lineare. Eravamo sempre insieme, noi 5. La cosa più bella di cui io abbia mai fatto parte. Non perdevamo momento per stare insieme e inventare esercizi di ginnastica. Tuttavia, la situazione non era rose e fiori per tutte noi. […] era sempre presa di mira da […]. Sempre. Che fosse in modo molto severo (e perfido) durante gli allenamenti o per prenderla in giro quando eravamo fuori della palestra. Noi non ce ne rendevamo conto, ma […] in qualche modo sottolineava spesso la sua inadeguatezza (soprattutto caratteriale), anche quando non era presente. I mesi passarono e, dopo essere stata cacciata più e più volte, […], alla fine, mollò. La ginnastica non era più un gioco. […] a volte era crudele, con quasi tutte noi. Urlava, urlava tanto, e a posteriori penso che i suoi commenti non fossero delle critiche costruttive ma insulti volti ad umiliarci, come individue e come individue parte di una squadra (che era lì ad osservare). ”Fai schifo”, ”Sembri un’ handicappata”, ”Sei un handicappata”, ”Togli quella lingua dai denti, sembri un’imbecille” divennero commenti quotidiani. A quei tempi (io avevo ancora tra i 9 e i 10 anni), vedevo questi commenti come un fatto che ”lei ci tenesse a me”. Di questo era convinta anche mia madre. Il peggio non sarebbe stato ricevere questi commenti, ma non riceverli più. C’era sempre un clima di terrore, dove ognuna di noi cercava di non essere l’oggetto delle umiliazioni. Questo ci metteva, indirettamente, le une contro le altre, in competizione per la sua attenzione e per cercare di non essere l’oggetto delle umiliazioni. Eravamo in qualche modo un po’ tutti stregati da lei, sia noi, che i nostri genitori. Cercavamo tutti la sua approvazione. Rappresentava l’unica allenatrice in città e il clima del terrore che aveva instaurato in palestra sembrava un paradiso in confronto a quello che lei aveva vissuto in palestra in Russia. Dovevamo essere grate, riconoscenti e sentirci fortunate di averla. I mesi passavano. A 10 anni, mi esibì al trofeo regionale allieve di fine novembre. Non potevo gareggiare perché avevo fatto ”Categoria” ad inizio anno e le due gare erano mutualmente esclusive. Lì, la direttrice tecnica regionale approcciò […] e stupita le chiese perché mi stessi esibendo con gli attrezzi da allieva (palla e fune). Data la mia età, da lì a un paio di mesi io avrei dovuto gareggiare come Junior prima fascia e questo avrebbe comportato attrezzi completamente differenti (nastro, cerchio, clavette). […] cadde completamente dalle nuvole e ovviamente, non ammise mai di aver sbagliato e di avermi fatto perdere un anno. Ovviamente, non avendo mai preso in mano una clavetta, non sarei mai stata in grado di gareggiare nel prossimo Campionato di Categoria. Io, che fino a qualche mese prima ero una stellina a livello regionale, sempre lodata da tutti, pian piano iniziai a spegnermi. A differenza di quello che lei voleva farmi credere, ovviamente non fu colpa mia. Era colpa mia, dei miei limiti, di quanto facessi schifo -mi veniva ripetuto sempre. ”Stai crescendo”. Il suo commento preferito nei miei confronti diventò ”Sei moscia”. Ripeto, non erano mai delle critiche costruttive, ma solo un continuo umiliare, giornaliero, costante, sempre. Solo recentemente sono riuscita a fare i conti con quella voce in testa che mi diceva quanto facessi ”schifo”, quanto fossi ”moscia”. Quella voce non mi diceva mai come migliorare, non mi aiutava mai a diventare una ginnasta migliore. Quella voce mi diceva di accettare la mia inadeguatezza, come ginnasta e come persona, come mia qualità intrinseca. Ogni qual volta, qualcuno (anche di rilievo) faceva apprezzamenti in me in quanto ginnasta, lei si girava verso di me e con la sua classica espressione di cattiveria, mista a disgusto, replicava sempre ”È moscia, non è bella”. In tutto ciò, la composizione della palestra era del tutto cambiata e oramai io (sebbene avessi nemmeno 12 anni) ero la più grande. La crescita ha sempre avuto una connotazione negativa. Nonostante fossero solo battute, lei ci faceva pesare molto il passare del tempo. Piangevo sempre come una fontana al mio compleanno. Non volevo che gli anni passassero. Un solo anno in più era una tragedia. Il sogno della nazionale, o, in qualche modo, di essere scelta si allontanava. Anche le forme fisiche, i corpi sviluppati avevano una connotazione negativa. Ragazze prosperose, o che semplicemente si truccavano e comportavano da (pre)adolescenti, magari iniziando ad uscire con ragazzi, venivano apertamente criticate da lei e considerate ”delle poco di buono”. Non perdevamo modo di sparlare di coloro che avevano lasciato la palestra. Io ovviamente, ci stavo male, erano le mie amiche e la mia squadra, e con loro avevo condiviso tanto. L’attaccamento ai genitori era un secondo fattore mal visto da lei. Un aspetto per cui mi criticava sempre erano le punte dei piedi. Un giorno, mentre mi correggeva con la mano la forma del piede le feci notare che era dovuto a come le mie dita erano fatte. Io stendevo il piede (questo si vedeva anche dal collo) ma le dita difficilmente si piegavano. Le dissi che anche mio papà aveva le mie stesse dita. Lei come reazione mi disse che parlavo troppo dei miei genitori (a che ricordi quella fu l’unica volta che io ne parlai) e che dovevo rendermi autonoma e staccarmi da loro. Dall’altro lato, quando tornavo a casa, subivo i rimproveri di mio padre che non era contento dell’effetto che lei stava avendo su dime. Iniziavo ogni frase con ”[…] dice”. Ricordo chiaro e tondo come una volta male interpretai un messaggio che ci aveva mandato (su dove/come fosse allenamento). ”Pensavo che intend… ” le iniziai a dire. le mi bloccò e mi disse ”Tu pensi troppo.” Il peso era un altro fattore. Al tempo io non ero direttamente impattata da commenti negativi a riguardo, o dalle sessioni di bilancia. Dovevamo stare attente a quello che mangiavamo e alcune di noi più delle altre. Alcune di noi erano fortemente criticate per il loro peso e a molte bambine (anche di età molto piccola) non veniva data nemmeno una piccola chance per questo fattore. Alcune ragazze, sia dell’agonismo che non, in passato avevano sofferto di anoressia ed erano stati i commenti di […], molto spesso, ad averla indotta.

Fase 2 – L’abbandono

Le cose cambiarono drasticamente con un viaggio che facemmo in […], per un trofeo internazionale amichevole. Lì eravamo noi quattro che rappresentavamo il fulcro dell’agonismo e […]. Io, la più grande (avevo circa 11/12 anni), […], quasi mia coetanea, ed […] e […], le nuove arrivate di 8/9 anni. Ormai gli occhi di […] erano solo per loro e soprattutto per […]. Nelle ore antecedenti alla gara, non si preoccupò per nulla della mia preparazione. La gara arrivo, e io sbagliai, clamorosamente, come ultimamente facevo alle gare. L’esercizio andò male, la palla andò fuori pedana. Un disastro. Tuttavia, vinsi il premio ”[…]” e quello mi face tornare di buon umore. Di ritorno in Italia, dissi di ”No” a […] un paio di cose, per cose banali come se volessi che lei mi reggesse il passaporto in aereo. Arrivate al piazzale dove i nostri genitori ci aspettavano lei rispose così a mio padre che le chiedeva come fosse andata ”Ho capito molte cose di […] in questo viaggio”. Da quel momento mi inizio ad abbandonare. Dapprima iniziò a montarmi esercizi molto più semplici di quelli che già avevo, poi smise del tutto. Mi mandava in musica solo una volta al giorno, a fine allenamento mentre sistemava la palestra. Non aveva più il minimo occhio per me. Il peggio stava succedendo. Anche quell’anno mi aveva promesso che avrei fatto Categoria, e anche quell’anno non la feci. Andai alla gara lo stesso però, a supportare le mie compagne e a darle una mano con le piccole. Lì, non so come, mi disse che l’anno precedente ero stata selezionata per la squadra junior regionale del […]. Allora le chiesi perché non me lo avesse mai detto. Mi rispose: ”Tanto i tuoi non ti ci avrebbero mandato”. Potrete immaginare che sofferenza enorme fu per me venire a conoscenza di questo fatto, soprattutto perché proprio attraverso la squadra regionale del […], anni prima la […] e la […] erano entrate in nazionale. Mi diede una pugnalata così forte. Ancora mi viene da piangere a pensarci. Questo rientrava tutto nella sua gelosia ossessiva nei nostri confronti. Non potevamo fare nulla: non potevamo andare in settimana bianca con la scuola, non potevamo salutare le ragazze della nuova squadra che si era formata in città. Non ero stata mai mandata, nel corso degli anni, agli allenamenti regionali del centro tecnico che si tenevano a […] per le bambine più promettenti della regione. Nonostante io fossi stata selezionata. Passavano i mesi e gli anni e le cose peggioravano a mano a mano. Io non esistevo più come ginnasta, servivo solo come aiuto allenatrice (nonostante pagassi la rata come tutte le altre). ”[…], insegna il tuo esercizio a X”, ”[…] insegna a fare questo a Y”, ”[…] fai tu il riscaldamento”. Ero arrivata a montarmi gli esercizi da sola, a imparare cose da sola tramite video. Ovviamente questo non soppiantava la mia assenza di preparazione psicologica ad ogni competizione. Ad ogni gara sbagliavo, sbagliavo in modo epocale. Le sue parole erano poi volte o alla completa umiliazione o alla totale indifferenza. Stavo morendo, dentro. Piangevo ogni singolo giorno dopo ogni allenamento. La sofferenza era così tanta, ma il mio amore per la ginnastica era così forte che ogni giorno speravo che le cose potessero cambiare. Cercavo di fare tutto per attirare indirettamente la sua attenzione. Mi riscaldavo da sola in maniera impeccabile, ero arrivata a dormire in spaccata e mettermi degli elastici ai piedi in modo che durante la notte mi curvassero la punta del piede (un po’ come un tempo facevano in Cina alle bambine). Inutile dire, che tutto ciò mi portava ad avere o crampi ai piedi o crampi alle gambe durante la notte. Avevo anche iniziato a non mangiare la merenda che mamma mi dava per scuola, e a mangiare veramente poco a tutti i pasti. Volevo dimagrire e volevo farlo per lei. Perché lei mi tornasse a guardare. Ma lei non si accorgeva di nulla. Solo una mamma si accorse che stavo perdendo peso molto velocemente. Il bello è che non fu nemmeno la mia. Fortunatamente, mi sentì male a scuola (facevo la seconda media) e la mia professoressa di ginnastica mi riprese perché aveva notato che non mangiavo abbastanza. Tra questo evento e un mio coetaneo che mi chiamò ”lo scheletro” per prendermi in giro, tornai a mangiare prima normalmente e poi ad alternare assenza di pasti ad abbuffate di dolci. Furono tre lunghissimi anni, i più bui della mia vita. Ogni anno mi prometteva che avrei fatto Categoria il prossimo e ogni anno non succedeva. Arrivata ai 14 anni mi fece finalmente fare questo Campionato. ”Ho sognato che ti suicidavi se non ti facevo fare Categoria”. Lo disse con il sorriso alle labbra, un giorno, ad inizio allenamento. Io che mettevo in dubbio il mio valore da anni, che soffrivo da anni, che piangevo da anni, interrottamente, ogni giorno. A me disse, sorridendo, che mi aveva visto in sogno, mentre mi suicidavo. Cosa dovevo pensare io? Quanto male poteva ancora continuare ad infliggermi, quanto male ancora potevo continuare a stare. La gara arrivò e lei non venne. Mi mando da sola, senza allenatrice. Quella stessa estate, nel parlare di collegiali e allenamenti a […] con […] e […] si girò verso di me e disse ”[…], tanto tu ormai …” Non finì la frase, ma finì me. Avevo 14 anni e percepivo la mia vita come finita. Un mese dopo […], che era diventata la mia migliore amica, fu cacciata insieme a […] e […]. Il motivo? ”Lavoravano”, qualche ora alla settimana, prima/dopo gli allenamenti, come volontarie al […], che ogni anno si svolge a […]. O il meeting o la ginnastica. Le due cose erano mutualmente esclusive per […]. Avevo, quindi, perso l’unica ragione che mi portava a continuare ginnastica – l’amicizia e le risate con […]. Decisi di smettere. Non ne valeva più la pena, stavo troppo male. Preparai il discorso e andai da […], accompagnata da mio padre, e le dissi tutto quello che dovevo dirle. Lei provò a farmi tornare in palestra. Io stavo quasi per cedere, ma mio padre, pronto, disse ”[…] è meglio che venga con me a casa”. Arrivati a casa, 10 minuti dopo, ad aspettarci c’era suo marito, […]. Era lì per dirci che avevamo sbagliato, dovevo tornare in palestra. Dovevo ripensarci. Faceva paura. Aveva fatto lo stesso con […] e […], e ora si appostava fuori dalle loro scuole di danza. Alle mamme di entrambe era stata graffiata la macchina e più volte lo hanno visto dietro di loro. Dopo due giorni, […] mi mandò un sms alle 7 del mattino. Per il suo contenuto e per il fatto che io avevo 15 anni, probabilmente passibile di denuncia (una fra mille). Mia madre condivise la storia con […], la direttrice tecnica regionale, e le chiese come fare per denunciarla alla Federazione. […] le disse di lasciar stare – non ne sarebbe valsa la pena.

Fase 3 – Il cambio di società e città in età adolescenziale

Provai danza, ma dopo un piccolo eccitamento iniziale, mi annoiai. Dopo un paio di settimane, con […], provammo ad andare a […] per una sorta di provino. Ci accettarono subito dicendo ai nostri genitori che avevamo delle luci negli occhi che le altre non avevano. Iniziammo ad andare, circa tre volte a settimana, le mamme si alternavano alla guida. Le allenatrici ci fecero subito notare che eravamo totalmente sbilanciate, da un punto di vista posturale. Io avevo le spalle sempre curve ed alzate. Non solo ci aveva distrutto emotivamente, […] non ci aveva nemmeno preparato bene. […] era semplicemente un sogno per una ginnasta come me, innamorata di questo sport più di me stessa. Allenatrici campionesse mondiali, due pedane di allenamento e, soprattutto, un clima sereno e delle persone che sin da subito ci trattarono come parte di loro. Era umano. Era sport.

Fase 4 – Gli effetti a lungo termine

Il nome di […] non fu più pronunciato a casa, per mia volontà. Tutte le foto alla parete avevano uno spillo sulla sua testa e il suo volto coperto. Non volevo parlare di lei, non ci riuscivo. Non riuscivo a parlare di quegli anni. Ogni singola volta che l’argomento veniva tirato fuori, io la sognavo. Lei è stata la protagonista dei miei incubi per almeno quattro anni. Non ricordo, fortunatamente, più questi incubi, ma ricordo che in molti di questi mi diceva che ero grassa. Per questi motivi, per 13 anni – tanti gli anni che ho fatto ginnastica – io non ho parlato di quello che succedeva in palestra, e ho rimosso, gran parte delle cose. Per questi motivi, sono ancora qui, a 28 anni, che piango mentre scrivo queste cose. Solo recentemente sto riuscendo ad affrontare il fantasma di […]. Il percorso terapeutico mi ha fatto capire come la mia bassa autostima sociale (in alcune particolari situazioni e soprattutto nei confronti dell’altro sesso) sia dovuta a quegli anni. Per anni mi sono completamente bloccata in alcune situazioni per una vocina interna che mi diceva quanto facessi schifo. Nonostante io sia una persona di successo, nonostante sia oggettivamente una ragazza di bell’aspetto, per anni questa vocina mi ha bloccato. Lo stesso vale per una forte sensazione di solitudine che provo nei momenti più tristi e per la ”sindrome della brava bambina”, che mi porta a credere che affetto e attenzioni siano condizionate a me essere brava in quello che faccio. Tredici anni dopo aver lasciato quella palestra e […], sono riuscita a parlare di queste cose. Sul resto ci sto ancora lavorando.
Conclusioni: Nello sperare che la mia testimonianza possa essere di aiuto, mi rivolgo alla Federazione e al Coni più in generale, Perché ci ascoltino. Perché cambino il sistema. Perché allontanino questi allenatori/trici che non sono idonei ad essere considerati dei buoni educatori. Per tutti noi per cui lo sport era un sogno, ma si è trasformato in un incubo. Perché ciò non accada più.

E’ arrivato il momento di squarciare il velo di omertà ordito dai cattivi maestri che oggi si nascondono dietro affermazioni tipo “erano altri tempi“, “tutti facevano così”, “se vuoi fare ginnastica di alto livello queste sono le regole”. Ed è proprio dalle regole che voglio cominciare. Sono un allenatore della Federazione Ginnastica d’Italia ed ho lavorato per molti anni presso un club molto importante a livello nazionale. Questo mio scritto vuole descrivere le situazioni dal punto di vista di un tecnico-allenatore che è altro rispetto a quanto vissuto dalle ginnaste o dalle famiglie delle ginnaste. Le violenze fisiche e psicologiche a cui sono state sottoposte le ginnaste erano e sono note a tutti (gli addetti del settore) ma oggi si tende a giustificarle derubricandole ad eventi isolati singoli, un antico retaggio di cattive abitudini che arrivano da altri tempi. La verità è che queste violenze erano ampiamente pianificate e teorizzate, in altre parole erano un sistema. Il grande inganno. Le famiglie delle ginnaste venivano convocate e si prospettava loro la possibilità di soddisfare le aspirazioni di risultati sportivi se queste si fossero sottoposte ad un regime di allenamento intensivo che dava buone garanzie. Visto che le ore di allenamento erano tante, spesso prevedevano 2 allenamenti al giorno e quindi una scuola privata la società si offriva di pagare in forma di borsa di studio una parte o interamente i costi dell’attività sportiva o scolastica, legando questo al risultato sportivo. Alle famiglie veniva prospettato che, visto che le ginnaste passavano in palestra con gli allenatori più ore di quelle che passavano a casa con i genitori, gli allenatori assumevano il ruolo del “buon padre di famiglia”. Quindi intervenivano come avrebbe fatto un genitore nei confronti del proprio figlio, quindi anche punendo per mancanza di rispetto o perché la ginnasta si comportava male (questo accordo normalmente veniva sugellato tra Società, Famiglia e Ginnasta). Alle ginnaste veniva chiarito durante l’allenamento che eventuali punizioni rientravano negli accordi con i genitori e che questi erano informati e consenzienti. Quindi andare a lamentarsi con essi per fatti avvenuti in palestra era totalmente inutile. Ai genitori veniva anche detto che era difficilissimo esercitare il ruolo di genitore, per il quale non c’era nessun manuale o protocollo, figuriamoci per fare il genitore di una giovane atleta, quindi venivano scoraggiati ad occuparsi di tutte quelle dinamiche complesse che nascevano in palestra e dovevano venire risolte in palestra. Le ginnaste erano di fatto tagliate fuori da ogni tutela da parte della famiglia. Quando le famiglie chiedevano spiegazioni per fatti accaduti in palestra, il capo allenatore organizzava un incontro con la famiglia e la ginnasta, durante l’incontro si sminuiva la portata dell’evento facendo notare che il punto di vista della ginnasta era viziato dalla stanchezza legittima accumulata durante l’allenamento, dal senso di frustrazione perché le cose non vengono come ci si aspettava e così via. Gli schiaffi sulle gambe o i pugni in pancia diventavano un modo per saggiare se a ginnasta era tenuta (cioè manteneva i muscoli contratti durante le esecuzioni o teneva le gambe tese). Tutte queste azioni non erano punizioni o ritorsioni di allenatori scriteriati, ma un legittimo sistema per l’allenatore di saggiare le dinamiche interne del movimento, impossibili da indagare solo a vista. Un altro argomento tipico era: “la stanchezza porta con sé la distrazione e la distrazione è causa di gravi infortuni, prima che la ginnasta si faccia seriamente male l’allenatore deve riportarla alla giusta attenzione” e il sistema più sicuro è quello di alzare i toni spaventandola o minacciandola, se la ginnasta sbaglia, maggiore è il rischio corso maggiore sarà la ritorsione nei suoi confronti. La ginnasta veniva subito invitata a spiegare con parole sue l’accaduto davanti all’allenatore che avevano imparato a temere e davanti ai propri genitori, nella maggior parte delle volte le ginnaste in quanto troppo piccole non spiaccicavano una parola, così l’allenatore aveva gioco forza la strada spianata a giustificare le “peggio cose accadute”, sminuendo l’evento e screditando la ginnasta perché il suo era il punto di vista di una bambina. Questo incontro chiarificatore poteva concludersi con il convincimento dei genitori che quanto accaduto è stato uno spiacevole incidente legato ad una incomprensione tra l’allenatore e la ginnasta. Oppure se i genitori si impuntavano gli si rinfacciava che i patti erano chiari fin dall’inizio e che se non erano d’accordo potevano dirlo subito. A questo punto se la ginnasta era interessante perché di talento si provava con questo ultimo ricatto morale: “Se ritiri tua figlia dal progetto ricordati che la sua carriera sportiva finisce qui e domani ti rinfaccerà per tutta la vita che gli hai impedito di fare lo sport che amava. Scegli o stai qui alle nostre condizioni o te ne pentirai per tutta la vita.”. Se la ginnasta sceglieva di continuare la figura dell’allenatore risultava rinforzata, se la ginnasta se ne andava è perché non era all’altezza ed era un freno all’allenamento e al buon clima di allenamento della palestra e per tutelare tutte le altre ginnaste è stata allontanata, in ogni caso tutto è andato bene.La vita in palestra era interamente controllata da un sistema poliziesco. Tutti gli allenatori erano se richiesto tenuti a controllare che le ginnaste svolgessero correttamente le quantità di ripetizioni richieste dell’allenatore, e se i conti non tornavano venivano punite, inoltre se gli allenatori non erano disponibili si chiedeva ad un’altra ginnasta di controllare il lavoro della compagna e senza farsi notare si chiedeva conferma. Inutile dire che il sistema poteva essere usato per controllare una ginnasta e per controllare l’affidabilità del controllore, sia questo una ginnasta o un allenatore. Veniva richiesta a tutti la fedeltà e la fiducia ma di fatto nessuno si fidava di nessuno e il capo allenatore tirava i fili di questa intricata trama. O ci si uniformava al sistema o si veniva isolati ed esclusi perché chi con il proprio comportamento faceva arrabbiare l’allenatore veniva mal visto dal gruppo che doveva sopportare un allenatore irascibile che sentendosi preso in giro da una ginnasta si rifaceva sull’intera categoria. Non solo le ginnaste erano sottoposte a questo condizionamento psicologico, ma anche gli allenatori venivano gradatamente condizionati per uniformarsi ad un pensiero unico. Agli allenatori più giovani venivano spiegate le ragioni delle punizioni si teorizzava su quanto dovessero essere violenti gli schiaffi sulle gambe perché il dolore durasse a lungo ma non lasciasse segni, per questo non bisognava indossare gli anelli, meglio se queste cose accadevano il mattino in modo che dopo pranzo nel secondo allenamento qualche complimento ed un atteggiamento forzatamente più rilassato facesse dimenticare quanto accaduto il mattino. Gli allenatori che con l’intento onesto di imparare un bellissimo lavoro, distratti da ciò che vedevano e cercavano di imparare (senza che nessuno spiegasse nulla o molto poco di tecnico) ricevevano tutte quelle meta-informazioni necessarie a poter esercitare il controllo su tutti, e principalmente sugli allenatori. Ci ha fregato tutti! Gli allenatori che potevano fare carriera in ambito agonistico venivano selezionati in base alla loro capacità di staccare la spina dell’empatia, normali relazioni di amicizia potevano svilupparsi solo tra allenatori, le ginnaste non erano considerate persone al pari degli allenatori, erano più come oggetti di lavoro, un po’ come la macchina da scrivere per una segretaria. Ci veniva espressamente detto di non affezionarsi alle ginnaste, perché sono volubili, cambiano spesso idea, sono infide e mentre le ginnaste passano gli allenatori ed il lavoro restano. In breve tempo tutti erano assuefatti alla violenza sia fisica che psicologica e questo mondo al contrario appariva la normalità, fuori dalla palestra nessuno avrebbe tollerato nulla di ciò che accadeva tra le mura della palestra. Ma la ginnastica è un mondo a sé con regole diverse da rispettare. Tutto ciò che si faceva era per amore della ginnastica e nell’interesse delle ginnaste. Per verificare il grado ed il livello di condizionamento raggiunto da un allenatore gli veniva chiesto di dare uno schiaffo in faccia ad una ginnasta come punizione per qualcosa che aveva fatto o non aveva fatto ed in base alle sue azioni si valutava la sua adesione al pensiero unico. Ingiuste punizioni- capitava che l’allenatore uscisse dalle righe e mettesse la questione sul piano personale comminando una ingiusta punizione, in questo caso scattava la solidarietà tra allenatori, visto che l’allenatore agli occhi dei suoi pari aveva sbagliato, ma non potendo mettere in discussione la sua figura, il suo ruolo e la sua credibilità dell’intero sistema occhi delle ginnaste, doveva essere salvato in un qualche modo. La versione ufficiale era che “l’ingiusta punizione” è un test per saggiare e temprare il carattere, un modo per verificare la tenacia e oggi diremmo la resilienza a situazioni avverse. Non esisteva un prontuario scritto sulle punizioni, ma avendone discusso più volte era prassi condivisa e si aggiornava quotidianamente in relazione a nuovi comportamenti. Ricordo un evento particolarmente significativo che riassume e stigmatizza questi comportamenti come un modus operandi e non un generico “così fan tutti”. La ginnasta si chiamava […], come ginnasta aveva capacità fisiche eccezionali, e potenzialità tecniche altrettanto eccezionali, ma non le sfruttava a pieno, quanto meno non come gli allenatori ritenessero dovesse fare, quindi ogni tre per due stava punita, in più per difendersi dal sistema o non ho ancora capito per quale strano motivo raccontava a tutti un sacco di bugie su qualsiasi cosa, questa comportamento la portò ad essere isolata da tutti, allenatori ma anche dalle compagna, perché lei veniva regolarmente scoperta , gli allenatori si incazzavano il clima si degradava e volavano punizioni per tutti per qualsivoglia sciocchezza. Dopo mesi di tentativi per far sì che si uniformasse alle regole il capo allenatore ci disse che di lì a poco avrebbe parlato con i genitori per farla ritirare dal programma di allenamenti e quindi visto che “abbiamo fatto di tutto per lei e ci ha letteralmente fatto impazzire era arrivato il momento di fargliela pagare”, la sua uscita dal Club non sarebbe stata indolore. […] era una certezza si faceva scoprire sempre così riceveva sberle ogni volta e anche più volte al giorno da diversi allenatori, era diventata un pungiball, anche le ginnaste erano spaventate dalla solerzia con cui veniva puntualmente picchiata e umiliata. Un giorno per punizione gli vennero richieste 100 salite alla fune senza gambe e ricordo che fece 18 funi consecutive con le gambe a squadra senza mai poggiare i piedi a terra (pena ricominciare da capo), poi crollò a terra e dopo qualche minuto sollecitata con un paio di minacce riprese e arrivò a 40 funi senza gambe ma tornando con i piedi a terra tra una e l’altra, poi non avendo più forza per salire senza gambe gli venne concesso di salire aiutandosi con le gambe, arrivò a 60 funi, ha pianto tutto il tempo, alla fine aveva le mani e i piedi spellati e sanguinanti. Qualche giorno dopo il capo allenatore gli diede di nuovo come punizione 20 funi (a questo punto una punizione blanda e di tutto riguardo), dalla posizione del capo allenatore non si vedeva interamente la fune, ma solo metà, perché l’altra era celata, […] saliva solo metà fune e poi scendeva (fingendo anche di essere provata), il Capo allenatore chiese conferma dello stato dell’arte. E fece la fatidica domanda “A che punto sei?”, risposta “Ho finito!” “Sei sicura?” “Si” -il capo allenatore- “Adesso vengo li” con incedere lento e minaccioso, nel silenzio più totale che precede lo scatenarsi di un evento […] tremante si fece la pipi addosso. Il capo allenatore raggiunta la ginnasta fece il cenno di dare una sberla col dorso della mano, ma si fermò e disse “Mi fai schifo vai a cambiarti, neanche ti tocco” e si girò dandole le spalle per continuare il lavoro come se nulla fosse accaduto. Nessuno esce indenne dopo aver toccato il male assoluto, ci vogliono anni per disintossicarsi, oggi che quelle ginnaste anno 20-30 anni vedono gli eventi del loro passato da donne e non più da bambine e alzano la testa per dire basta.

Ho iniziato ginnastica ritmica a livello agonistico quasi subito, all’età di 7 anni in una società di punta del Varesotto. Eravamo un gruppo di otto ginnaste, tutte promettenti e con gli occhi luminosi, gli stessi occhi che si sono spenti mesi dopo e mai più riaccesi, frutto di un sistema omertoso e vigliacco che tende a ghettizzare ed umiliare i più deboli… Una sorta di selezione naturale, fatta da chi si sente in potere di spezzarti le ali solo guardando i tuoi genitori perché “in base alla loro statura, possiamo dirti che non avrai il fisico adatto”. A 7 anni. L’allenatrice era solita attuare pratiche disumane e degradanti, giustificandole con false speranze, dicendo frasi del tipo “Se ti tratto così, è perché so che diventerai una campionessa”. E noi ci credevamo, e per questo accettavamo in silenzio queste torture, perché è di questo che si tratta. Non è questa la sede per scendere nel dettaglio delle violenze e delle umiliazioni che io, come le mie compagne, abbiamo subito fino all’età di 11 anni. Sì, perché a quell’età mi cacciarono dalla palestra perché non vi erano più le condizioni per continuare; tuttavia, non mi rilasciarono il cartellino e così fummo costretti a denunciare la Società per scorretta documentazione, caso che ovviamente finì archiviato. Ma non è tutto: dai temi scritti a scuola agli incubi notturni, i miei genitori iniziarono a preoccuparsi e con non poca fatica dovetti raccontare cosa accadeva entro quella quattro mura, a cui fece seguito una lettera aperta al Presidente della Società che fu poi inviata anche al Procuratore Federale. Il caso per tesseramento illecito fu archiviato perché ignorantia legit non excusat, ma il fascicolo disciplinare non venne mai aperto. Era il 2011. All’età di 11 anni quindi cambiai palestra e per un periodo fu idilliaco. Poi, con la calma di chi sa che prima di distruggere qualcuno si ha bisogno di ottenere la sua fiducia, le cose hanno iniziato a degenerare e sono culminate con una giovane me che, terminata l’attività sportiva agonistica, non ho visto altra via di scampo se non infilarmi le dita in gola e vomitare quello che mangiavo. Tutto questo per dire che anche io ho subito violenze e maltrattamenti e non all’interno della Nazionale. Non sono mai stata una Farfalla, ma solo un piccolo bruco che aveva bisogno di educatrici nel periodo più difficile della vita di ogni essere umano – l’infanzia e l’adolescenza – e che queste hanno abusato della loro posizione per ottenere qualcosa di più grande. Non c’è da stupirsi quindi se moltissimi giovani escono dal mondo sportivo con la cosiddetta Sindrome dell’Impostore, tale per cui non ci si sente mai all’altezza del contesto e si cerca sempre di dimostrare qualcosa a qualcuno perché ritenuti non meritevoli di rispetto. È la conseguenza del gaslighting, ed è più presente di quanto non si pensi e io me ne sto rendendo conto solo a seguito di questo scandalo perché sono in primi, succube di questa mentalità malata ed è grazie alla terapia se sto iniziando a capire che quella sbagliata, nella realtà, non sono io. A tutti i genitori voglio dire di non sentirvi in colpa. Non potevate sapere perché il rapporto allenatrice – atleta è delicato e molto intimo… È un rapporto tossico che dà vita alla Sindrome di Stoccolma, tale per cui non solo si protegge il carnefice, ma addirittura lo si giustifica. Voi oggi siete solo i capri espiatori di un mondo meschino che non è in grado di prendersi le proprie responsabilità e riversa su di voi i loro fallimenti, perché è di questo che si tratta.

Sono un tecnico di ginnastica artistica, purtroppo nei miei 20 anni di esperienza ho sentito tante storie di comportamenti tenuti da tecnici al limite dell’abuso fisico e psicologico, un vissuto sempre riportato da atlete e colleghe e per questo ancora più difficile da denunciare, un confine tra richiesta di disciplina e sopraffazione che spesso è difficile valutare ed interpretare. Tutto avviene all’interno di un contenitore nel quale si trova passione, aspettativa, voglia di emergere, emozioni, un mix che sommerge le frustrazioni e nel quale è difficile aprirsi e denunciare comportamenti vessatori. Non è solo coinvolta la ginnastica ritmica con il tema dell’ alimentazione ma anche la ginnastica artistica, all’interno della quale si sente spesso di comportamenti di grave mancanza di rispetto per le proprie ginnaste e atteggiamenti punitivi. Ora chiaramente non riguarda il 100% dei tecnici, sono in molti che mettono il rispetto delle proprie allieve prima di tutto. Ma la pratica nel nostro mondo non solo è diffusa, è protetta e consentita dalle società più forti e spesso dai dirigenti federali. Tanti tecnici che conosco hanno subito questo trattamento quando erano ginnaste e ora adattano maldestramente quanto ricevuto, mi arrivano ogni tanto allieve che vengono da queste realtà, intimorite, quasi congelate, la palestra è un posto dove non sgarrare per emergere, non divertirsi. Il confine tra disciplina e abuso è molto labile ma spesso viene scavalcata qualsiasi forma di rispetto in nome di un modello ritenuto vincente.

Praticavo ginnastica ormai da tanto tempo, quando a 16 anni iniziai ad allenarmi con un’istruttrice trasferitasi dal nord che aveva fondato una nuova società nella mia città. Inizialmente allenava me e altre due mie compagne, una delle quali si stava preparando per la serie A.
Iniziai subito a vedere verso questa mia compagna atteggiamenti un po’ troppo duri a mio parere. Ma non mi sono mai fatta troppe domande perché sapevo che lei era un’allenatrice rinomata per la sua bravura tecnica. La mia compagna non veniva trattata bene, veniva pesata tutti i giorni.. Mentre io e […] no… Questa e un’altra allenatrice che ci seguiva hanno iniziato a pesarci dicendoci che erano solo dei controlli per scriversi i nostri dati… Non mi hanno mai fatto storie sul peso come con […], si limitavano solo a pesarmi insieme alle mie compagne. Man mano che crescevano le aspettative non ricordo che le cose andavano peggiorando. Le mie allenatrici chiesero a mia madre di mandarmi in una scuola privata e andare a vivere con loro. Mia madre mi riportò questa cosa e io le dissi che preferivo di no, per paura di subire le stesse cose. In tutto ciò io portavo il cibo di nascosto a […] durante gli allenamenti. In estate ci sono i collegiali. Ricordo bene i 4 giorni di inferno passati con questa allenatrice rinomata. Non le andava bene nulla di quello che facevo. Avevo continuamente l’ansia di sbagliare perché altrimenti mi beccavo un “Che schifo, ma cos’è sta roba” e puntualmente ricominciavo da capo, piangevo tutti i giorni. Non sono mai stata così contenta di andare in un altro collegiale senza di lei. Tornata da […] siamo andate dirette a […] dove ci ospitavano le famiglie delle bambine. Ricordo che ad un certo punto ci svegliammo una mattina e non c’era più il solito pacco di biscotti sul tavolo, ma una tazza di latte e 2 biscotti accanto e la mamma della ragazza che ci ospitava ci disse “Mi hanno detto […] e […] di non farvi mangiare più troppi biscotti la mattina”. Considerando che ci allenavamo dalla mattina alle 9 alla sera alle 20 per tutta l’estate io ebbi uno sfogo mai avuto in vita mia, sia per la stanchezza sia perché mi sembrava assurdo non poter mangiare nemmeno la mattina. Il giorno sono stata chiamata in spogliatoio da […] che mi disse che non mi dovevo permettere di fare questi pezzi davanti ai parenti di […] perché altrimenti non l’avrebbero più mandata a […] per gareggiare con noi. Ricordo che le mie compagne contavano i rigatoni che ci mettevano nel piatto e io mi arrabbiavo perché stavamo diventando fissate.. Quell’estate quando ci siamo spostate nuovamente siamo andate stavolta a vivere con le due allenatrici. Gli allenamenti erano sempre dalla mattina alla sera, con pausa pranzo preparato da loro. Avevamo centrioli fissi e una porzione di pasta in bianco senza condimento divisa in due. Una sera ci cucinarono una foglia di radicchio a testa. La mattina per colazione avevamo una tazza di latte e 2 biscotti Oro Saiwa integrali. In pausa pranzo le allenatrici andavano a mangiare al ristorante lasciandoci tutte in palestra con il nostro pranzo al sacco e alcune di noi di nascosto si andavano a comprare le barrette di cioccolato al supermercato. Una volta per non farci scoprire comprammo una cassa d’acqua facendo finta che eravamo andate per quello. A Chieti ci pesavano tutti i giorni e io pesavo 45 kg per 175 cm. Una sera loro andarono a cena fuori lasciandoci a casa, aprimmo le credenze per rubare i biscotti che non c’erano più perché li avevano nascosti e il frigo era vuoto. Ricordo che l’unico giorno di riposo, il 15 agosto, vennero i miei genitori a trovarmi e si spaventarono per quanto ero magra. La giustificazione dell’allenatrice è stata che ero molto stressata e che era normale per le ore di allenamento. Ricordo che con i miei genitori mangiai quasi una teglia di abbacchio intero e quando il giorno dopo mi pesarono non avevo preso nemmeno un etto. Li ebbi una delle prime crisi esistenziali prima di smettere. Iniziavo a mettermi in discussione, non mi sentivo in grado di fare nulla, non sapevo più che strada volessi intraprendere, mi sentivo confusa. Lei era molto brava a farti giochi psicologici facendoti sentire inadeguata, o una cattiva atleta. Decido di continuare e continuare. Non mi veniva il ciclo da ormai 3 mesi, andai da […] e la avvertii di questa cosa che io non sapevo essere un problema, lei mi rispose con un sorriso “Pensa, se dimagrisci altri 2 kg non ti viene per altri 2 mesi”. Ero sempre più stanca con sempre meno forze, ma io credevo che fosse giusto così e di essere io quella che non reggeva il duro lavoro. Mi ricordo che soprattutto l’ultimo periodo lei era determinata a prepararmi per provare ad entrare in squadra. Questa cosa mi spaventò perché non mi ritenevo all’altezza. Un’altra cosa che ricordo è che mi faceva fare tante esibizioni di seguito, soprattutto l’ultimo periodo. Una volta mi ritrovai con il sedere a terra dopo uno scenè perché vidi tutta la stanza girare intorno a me. Lei non fermò la musica, ma mi guardò come per dirmi “Beh continua”. Ho ricordi un po’ vaghi ma queste sono più o meno le cose che sono successe. Non ho deciso di smettere, un giorno non sono andata in palestra perché mio padre mi ritrovò sul letto a piangere pronta per andare in palestra: decise di non mandarmi. Neanche quello dopo ancora. Finché non andai più.
Mi sentivo in colpa, piangevo pensando di essere io il problema, la mia allenatrice mi scriveva messaggi de tipo “non sei una vera atleta, non si lascia una squadra così, sei una codarda, non ti prendi le tue responsabilità”. L’ultima volta che le vidi fu dopo mesi dall’aver smesso, perché avevano ormai preso mesi prima i biglietti per andare a vedere i mondiali di Izmir con la mia compagna che si allenava ancora. Ricordo che mi trattarono come se non esistessi, mi portarono in merceria per i body di […], oppure un giorno mi lasciarono in hotel da sola portandosi con loro […] dicendo davanti a me “Vieni […] andiamo a salutare la squadra nazionale che ti presento l’allenatrice”. Quella è stata l’ultima umiliazione. Dopo 5 anni che non facevo nulla una mia amica mi chiese di gareggiare per loro per una squadra, io mi buttai.. Il giorno della gara vidi dopo tanto tempo la mia allenatrice in giuria è mi venne un attacco di panico. Per fortuna una mia compagna di squadra mi aiutò a riprendermi e vincemmo il titolo di campionesse regionali. Ora ho […] anni e insegno ginnastica ritmica in una mia società fondata da poco, spero di trasmettere tutto ciò che mi è stato insegnato a livello tecnico e trasmettere quella sicurezza che non ho avuto io.

Nel 2004 praticai per un anno ginnastica artistica in una palestra di Genova. Benché fossi molto appassionata a questo sport dopo poco tempo abbandonai la palestra a seguito di umiliazioni continue.

Le insegnanti favorivano una competizione spietata fra le bambine, utilizzavano punizioni sfiancanti se ci vedevano parlare fra di noi. Una volta, visto che per loro ero troppo lenta nella corsa, mi fecero rincorrere da una bambina e la autorizzarono a prendermi a schiaffi qualora mi avesse raggiunta. Avevo solo 8 anni ma ricordo benissimo questo evento come altri. Un’altra volta fecero correre in cerchio una bambina di 5 anni che si era fatta la pipì addosso per umiliarla, con il body bagnato ancora addosso.

Anche il bullismo in questo ambiente era ben tollerato e favorito. Non parlai con i miei genitori di questi eventi, mi vergognavo troppo essendo così piccola.

Per il bene dello sport. Mi continuo a ripetere queste 5 parole per prendere coraggio e tirare fuori quel che succedeva nelle mura della palestra.

C’erano diversi cartelli nell’atrio per i genitori “solo le bambine possono entrare in spogliatoio”, cartelli che davano regole ben precise anche a loro perché è proprio negli spogliatoi che saliva l’ansia di entrare e si scoppiava a piangere pregandoli di riportarti a casa.. Si, c’erano dei materassoni davanti alle vetrate per non far vedere cosa accadeva in palestra, e No, i genitori non potevano mai assistere agli allenamenti, nemmeno a una piccola parte.

Quello che mi preme far emergere è che era l’ansia a governare il tutto. Non c’è un argomento in particolare di cui parlare, c’era l’ansia di bere veloce l’acqua perché non potevi smettere di provare, c’era l’ansia di quando ti chiamavano pronta per l’esecuzione, c’era l’ansia di dover parlare con le allenatrici e dire loro che ti eri fatta male veramente o che dovevi stare a riposo per febbre. L’ansia del “non mi credono, non credono che ho la febbre” oppure “non credono che mi sono rotta quest’osso” . Non so come, andavi dal fisioterapista da loro consigliato e ti diceva che avevi una contrattura e che potevi tranquillamente continuare a fare cicli costosi di massaggi e tecar per continuare a lavorare quando poi scoprivi altrove di avere fratture, contusioni, ossa fuori posto. L’ansia della bilancia, che trovavi in spogliatoio appena arrivavi e sapevi già che alla fine saresti dovuta salire, quindi ti allenavi con la massima intensità per sudare di più e cercare di perdere quei grammi all’ultimo, i minuti prima della pesa tutte correvamo in bagno sperando di tirare fuori il più possibile in un modo o nell’altro, poi ci toglievamo tutto quello che poteva “pesare“ come forcine, mollettine, calzini, si rimaneva giusto in mutande cercando di mettere i piedi ai lati della bilancia sperando cambiasse qualcosa.. Il giorno prima se sapevi ci sarebbe stata la pesa non mangiavi, ti tagliavi i capelli, prendevi lassativi dicendo ai tuoi che non riuscivi ad andare in bagno, se ti capitava il virus intestinale o la febbre alta eri contenta perché ti aiutava ad asciugarti e slanciare la forma.

L’ansia di salutare le tue ex compagne di squadra che, una volta aver cambiato società, non potevi più salutare o andare al loro compleanno.

Prendere per il braccio e trascinare una ginnasta per la pedana non è ginnastica, come non lo è un allenatore che urla “fai schifo, ti vuoi svegliare?”, la ginnastica non è “non sei degna dello stemmino che hai sul braccio”, la ginnastica non è lasciare una ginnasta tre ore intere su una spaccata perché piange dal dolore, e non è nemmeno rimanere di fianco al tuo allenatore in silenzio fino a quando non chiedi scusa per cose che non hai fatto. La ginnastica è ben altro e se non la trovi dove sei non aver paura di cambiare società, le realtà sane esistono anche ad alti livelli.

Sta venendo finalmente a galla tutta la verità su quello che è realmente l’ambiente della ritmica. Tante stanno confessando, finalmente direi, e lo sto facendo anche io. Voglio che si sappia lo schifo che ho passato e quello che succedeva dentro e fuori la palestra, talmente tante cose che me ne sfuggirà sicuramente qualcuna. Ho iniziato ritmica a 2 anni con mia mamma e all’età di 5 anni sono entrata in una società che faceva agonismo. Già a 7/8 anni venivano fatti i primi commenti sul mio corpo, le prime pesate, i messaggi a mamma dove la mia istruttrice (successivamente entrambe, erano 2) diceva che avevo il culetto che non andava bene per fare la ginnasta, solo per la spiaggia e che quindi dovevo dimagrire. Oppure il commento di me ingrassata perché non saltavo bene. Mi aveva visto il sabato e il lunedì magicamente per lei ero ingrassata, nel giro di 2 giorni.

Mangiavo già poco di mio perché non mi piaceva quasi niente e una cosa che mangiavo spesso era la mozzarella, mozzarella che mi veniva rinfacciata tante volte perché per loro “lo stavo diventando”. Una sera eravamo a cena prima di una gara e avevo preso appunto una mozzarella di bufala ed è successo il finimondo! Hanno chiesto al cameriere di portarne una più piccola perché per loro era troppo grande (non lo era) ma non c’era quindi mi ha lasciato quella. Mi commentavano sotto mentre la mangiavo e me l’hanno fatta pure lasciare; poi non ho mangiato più niente.

Commentavano sempre il cibo che portavano nelle pause pranzo o a tavola e se per loro era troppo e non andava bene non ce lo facevano mangiare. Ci comandavano come dei burattini! Dovevamo fare quello che dicevano loro e se non le ascoltavamo avremmo avuto delle punizioni, tipo correre per almeno 20 minuti sotto al sole se pesavo anche 1 solo grammo in più. Io per la paura prima che venivo pesata andavo al bagno e non bevevo così pesavo qualcosa in meno; quel peso sarebbe stato scritto su un quadernino.

C’è stata una trasferta che mi ha segnata ed è stata per me l’esperienza più brutta: ho passato una settimana senza mangiare praticamente niente, giusto il minimo indispensabile per riuscire ad alzarmi la mattina e ad allenarmi dalla mattina fino alla sera. Loro mangiavano di tutto davanti a noi, tipo patatine, pizza, ecc.. E ci dicevano che dovevamo resistere al cibo. Una sera ho vomitato e nessuna delle due mi ha dato una mano, anzi si sono messe lì a guardarmi. Credo lo abbiano fatto apposta. Un’altra sera ci hanno portate al cinema e io di nascosto mi sono portata un pacchetto di crackers che ho mangiato insieme alla mia compagna. Ci nascondevamo con il buio del cinema, lei almeno mangiava di più quella settimana, io stavo morendo di fame!  Quando mia mamma mi ha vista dopo una settimana era sconvolta per come mi avevano ridotta e si è arrabbiata tanto con loro, ma per loro non era vero che ero così magra, ero solo “più asciutta”. Dopo la gara le mamme avevano preso pizze e patatine ed è successa davvero una tragedia. Ad uno stage tutti stavano mangiando un gelato e io non dovevo farlo, ai compleanni il cibo era solo per la foto ma non dovevo mangiarlo, il pane a tavola non si doveva toccare, solo loro potevano. Venivo pesata sempre più spesso e i commenti erano sempre più pesanti e frequenti. Le vacanze estive erano da una parte un incubo perché quando sarei tornata in palestra sapevo quello che mi aspettava ovvero allenamenti molto più pesati perché dovevo smaltire tutto quello che avevo mangiato nelle vacanze. Una volta ci ha fatto andare in una spiaggia dove per arrivare si dovevano fare non so quanti chilometri a piedi sotto al sole. Ovviamente fatto di proposito. Se mi fosse venuto il ciclo sarebbe stato un male perché significava che diventavo più grossa di quanto già lo ero. Iniziavo ad avere le prime forme di una donna e quindi avevo il terrore, infatti quando mi è venuto non l’ho detto. Solo dopo un anno l’ho detto. Se mi infortunavo dicevano che lo facevo apposta e mi facevano allenare comunque peggiorando ovviamente la cosa e facendomi ancora più male. Durante un allenamento prima della gara stavo perdendo un sacco di sangue e mi hanno fatta continuare senza fermarmi nemmeno per mettere dei cerotti; gli scalda muscoli erano insanguinati. Sono stata anche in una società a […] per fare la serie b nazionale, lì un anno da sola senza mamma e papà, che salivano solo ogni tanto, ma non mi facevano problemi per il cibo o il fisico, però c’erano altri problemi: l’allenatrice mi bestemmiava in faccia, mi diceva le peggio parole e c’erano punizioni pesanti se sbagliavo qualcosa. Mi è stato detto anche di essere senza neuroni. Non venivo aiutata se stavo male, tanto che una volta mi hanno chiusa in una stanza sola con la febbre senza che nessuno venisse a controllare, se non una mamma di una mia compagna che a fine giornata mi ha portato le medicine. Un giorno mi allenavo dalle 9 di mattina e mi hanno fatto fare pausa alle 4 di pomeriggio perché dovevo fare bene le esecuzioni, e fino a quel momento non avrei fatto pausa. Mi correggeva senza accortezza, facendomi male tante volte, ma a lei non interessava. Non volevo starci più quindi l’ho detto a mamma e sono tornata in […], in un’altra società dove però c’era una delle allenatrici di quella dove andavo prima. La situazione non era per niente cambiata, era sempre uguale. Durante la […] a […] avevo comprato un pacchetto di patatine e mi sono state strappate dalle mani. Comprava l’abbigliamento per la palestra fino a 2 taglie più piccole così avevo anche un’altra scusa per dimagrire. Durante una trasferta mi ha fatto girare tutta la città a piedi, io chiedevo di chiamare il taxi ma mi diceva no, che dovevo camminare per bruciare il toast che avevo mangiato a pranzo visto che non mi ero nemmeno allenata quel giorno… Ho fatto 30.000 passi, li ho contati con l’app del telefono. Avevo la gara in giorno dopo ed ero distrutta! Crescendo i commenti erano sempre più pesanti. Dopo una gara tutti si sono mangiati la pizza che volevano, io no, e avevo sempre lei al mio fianco che mi ripeteva che dovevo lasciarla… Così ho fatto. Un’altra volta dopo la gara stavo morendo di fame, c’erano le patatine sopra al tavolo, ma non potevo prenderle perché l’indomani avevo la finale. La mia compagna me le passava di nascosto, non oso immaginare cosa sarebbe successo se ci avessero scoperte. Prima di una gara mi sono quasi rotta il piede, il motivo? Non mi ricordo quante esecuzioni di seguito senza pedana. Per lei la gara dovevo farla con il piede ridotto in quel modo, gonfio come una palla, e dopo farmelo ingessare, ma prima dovevo gareggiare. Ovviamente mia mamma l’ha ignorata e non ho fatto la gara. Io ero quella presa più di mira. Ce l’avevo sempre accanto quando mangiavo e mi commentava ogni cosa facendomene una colpa. Quando andavamo in trasferta dovevamo stare sempre con loro, anche in stanza, perché sennò con i genitori mangiavamo e non dovevamo. Solo il minimo indispensabile. Tornata in palestra dopo la quarantena avvertivo che ero stata messa di lato, probabilmente perché ero ingrassata e non andavo più bene. Non ho resistito più e ho smesso. Morale della favola: adesso soffro di anoressia.

Mi hanno fatto ammalare, loro sono la causa di tutto quello che sto vivendo adesso e mi auguro che un giorno cambieranno. Sto soffrendo tanto, e come me anche altre ragazze. Lo sport non è questo!

IL RUOLO DELLO SPORT

Nel mondo sommerso della ginnastica ritmica, che in questi mesi sta finalmente venendo a galla, sembra quasi che si sia perso il valore fondamentale che lo sport rappresenta.  Lo sport è ormai considerato la terza agenzia educativa, dopo la famiglia e la scuola, e insieme a queste deve contribuire alla crescita e alla formazione delle nuove generazioni. Lo sport, così come la famiglia e la scuola, educa e forgia il carattere, definisce le nostre scelte e il futuro collettivo. E proprio quando si segnala una fase particolarmente delicata vissuta all’interno delle tradizionali agenzie educative, lo sport deve venire in aiuto perché i momenti aggregativi che riesce a esprimere diventano spesso un’àncora di salvezza per molti ragazzi. Quello che stiamo scoprendo ultimamente nell’ambito della ginnastica non rispecchia assolutamente il compito affidato allo sport. I comportamenti illeciti adottati dalle allenatrici, gli atti di bullismo, gli abusi sia fisici che psicologi subiti dalle ginnaste così come emersi dalle varie testimonianze, sono anni luce lontani da quei valori così nobili che lo sport dovrebbe insegnare e tramandare. Le ginnaste di oggi saranno le allenatrici di domani! Se non mettiamo un punto, continueremo a dare carta bianca alla formazione di professionisti incompetenti pedagogicamente che invece di tramandare il bello dello sport contribuiranno ad affondarlo e screditarlo. Non dobbiamo permettere che le giovanissime atlete crescano con l’idea che essere prese a parolacce, essere screditate davanti a tutte, essere umiliate, beffeggiate sia la normalità, non devono crescere pensando che tutto ciò sia l’altra faccia della medaglia da sopportare in silenzio per arrivare al successo. Basta! Non devono crescere pensando di essere sbagliate perché qualcuno ha deciso che non si può fare ginnastica con qualche etto in più. Non devono crescere ammalandosi nel corpo e nell’anima per le incompetenze e frustrazioni di chi le allena. Lo sport non è questo, i valori che deve trasmette sono altri, sono la lealtà, il sacrificio, la condivisione, la disciplina, il rispetto della persona e delle regole, la solidarietà, tutti valori che sono i principi fondamentali e fondanti di ogni società sana. Mens sana in corpore sano non deve rimanere una locuzione latina da citare per fare bella figura, deve essere la direzione da prendere per riportare la ginnastica al suo valore principale.

In merito al ruolo dei genitori nel mondo della ginnastica bisogna immediatamente sfatare un mito alquanto scomodo per i genitori, che troppo spesso è stato  lo scudo per tante allenatrici e associazioni sportive.

LA CONSULTA DEI GENITORI

Quando iscriviamo nostra figlia a un’associazione sportiva, quasi sempre – perché ricordiamo che per fortuna qualche bella realtà esiste nella ginnastica – una delle prime regole che siamo invitati a rispettare è quella di non intromettersi nella vita sportiva di nostra figlia/di nostro figlio. Finché questa limitazione riguarda l’aspetto tecnico nulla quaestio, ed è questo quello che il genitore percepisce, ingenuamente, nell’apprendimento di quella regola; ma dietro a quell’invito da parte delle allenatrici c’è molto molto di più! La fatidica frase “dovete avere fiducia“ troppo spesso nasconde un trabocchetto. Perché da quel momento un genitore difficilmente verrà più messo nelle condizioni di poter capire, accertare, verificare… Un genitore infatti, che approccia a un mondo sconosciuto come quello della ginnastica, affida la propria figlia, piccolissima, nelle mani dell’allenatrice credendo di avere davanti un professionista con competenze non solo tecniche, nel quale ripone quella fiducia che viene tanto richiesta. E allora niente domande, perché le domande infastidiscono l’allenatrice che puntualmente ribadisce il concetto che “bisogna fidarsi e lasciarle fare, lasciarle lavorare” perché loro (le allenatrici) sanno ciò che è meglio e ciò che è giusto per le nostre figlie. In quest’ottica il genitore è demonizzato e considerato la rovina della carriera sportiva del proprio figlio. Oggi, a seguito di tutto quanto venuto fuori in questi ultimi mesi, finalmente il genitore inizia a capire il perché di quella regola così vincolante al limite dell’obbligo. Ciò che emerge è che quella fiducia richiesta è stata brutalmente calpestata da quelle stesse persone che chiedendola, anzi pretendendola, invece di supportare e aiutare a crescere i nostri figli, ne hanno fatto oggetto delle loro frustrazioni. Le tantissime testimonianze che ormai si susseguono in questi mesi hanno portato in evidenza che il genitore viene allontanato, perché quello che devono arrivare a fare con le nostre figlie non è possibile con la presenza della figura genitoriale. “Meglio una ginnasta orfana” è una delle frasi emersa da una testimonianza che racchiude il macabro senso di quello che queste allenatrici, se così ancora si possono chiamare, hanno del loro ruolo. La fiducia richiesta serve per plagiare  le nostre figlie e portarle a sopportare tutti gli abusi che abbiamo avuto modo di sentire nelle varie testimonianze, senza che abbiano la forza, le nostre figlie, di confessarci (se non in un secondo momento e a volte troppo tardi) quello a cui vengono sottoposte. Ecco allora il motivo di quella richiesta, troppo codarda e troppo crudele per continuare a essere accettata, anzi a essere proposta/imposta da un’allenatrice. La cosa assurda, poi, è quella di sentirci noi genitori accusati, da chi ancora ritiene di difendere questo mondo così omertoso e crudele, di non essere stati presenti, di non esserci accorti di quello che accadeva alle figlie. Prima ci si chiede di non impicciarsi e poi ci si accusa di non aver visto! E’ arrivato il momento di riprendere i ruoli primordiali che la società stessa assegna a ognuno di noi. E’ il momento di smetterla di scaricare le colpe sui genitori che non hanno fatto altro che accordare quella fiducia tanto richiesta. Fino ad ora abbiamo accettato e lasciato fare. Ora basta!

Sono un tecnico di ginnastica artistica, purtroppo nei miei 20 anni di esperienza ho sentito tante storie di comportamenti tenuti da tecnici al limite dell’abuso fisico e psicologico, un vissuto sempre riportato da atlete e colleghe e per questo ancora più difficile da denunciare, un confine tra richiesta di disciplina e sopraffazione che spesso è difficile valutare ed interpretare. Tutto avviene all’interno di un contenitore nel quale si trova passione, aspettativa, voglia di emergere, emozioni, un mix che sommerge le frustrazioni e nel quale è difficile aprirsi e denunciare comportamenti vessatori. Non è solo coinvolta la ginnastica ritmica con il tema dell’ alimentazione ma anche la ginnastica artistica, all’interno della quale si sente spesso di comportamenti di grave mancanza di rispetto per le proprie ginnaste e atteggiamenti punitivi. Ora chiaramente non riguarda il 100% dei tecnici, sono in molti che mettono il rispetto delle proprie allieve prima di tutto. Ma la pratica nel nostro mondo non solo è diffusa, è protetta e consentita dalle società più forti e spesso dai dirigenti federali. Tanti tecnici che conosco hanno subito questo trattamento quando erano ginnaste e ora adattano maldestramente quanto ricevuto, mi arrivano ogni tanto allieve che vengono da queste realtà, intimorite, quasi congelate, la palestra è un posto dove non sgarrare per emergere, non divertirsi. Il confine tra disciplina e abuso è molto labile ma spesso viene scavalcata qualsiasi forma di rispetto in nome di un modello ritenuto vincente.

Sono un tecnico di ginnastica artistica, purtroppo nei miei 20 anni di esperienza ho sentito tante storie di comportamenti tenuti da tecnici al limite dell’abuso fisico e psicologico, un vissuto sempre riportato da atlete e colleghe e per questo ancora più difficile da denunciare, un confine tra richiesta di disciplina e sopraffazione che spesso è difficile valutare ed interpretare. Tutto avviene all’interno di un contenitore nel quale si trova passione, aspettativa, voglia di emergere, emozioni, un mix che sommerge le frustrazioni e nel quale è difficile aprirsi e denunciare comportamenti vessatori. Non è solo coinvolta la ginnastica ritmica con il tema dell’ alimentazione ma anche la ginnastica artistica, all’interno della quale si sente spesso di comportamenti di grave mancanza di rispetto per le proprie ginnaste e atteggiamenti punitivi. Ora chiaramente non riguarda il 100% dei tecnici, sono in molti che mettono il rispetto delle proprie allieve prima di tutto. Ma la pratica nel nostro mondo non solo è diffusa, è protetta e consentita dalle società più forti e spesso dai dirigenti federali. Tanti tecnici che conosco hanno subito questo trattamento quando erano ginnaste e ora adattano maldestramente quanto ricevuto, mi arrivano ogni tanto allieve che vengono da queste realtà, intimorite, quasi congelate, la palestra è un posto dove non sgarrare per emergere, non divertirsi. Il confine tra disciplina e abuso è molto labile ma spesso viene scavalcata qualsiasi forma di rispetto in nome di un modello ritenuto vincente.

Le ferite richiedono tempo e cura per guarire e diventare cicatrici. Ogni tanto te ne dimentichi per un po’, a volte fingi di non vederle, in alcune occasioni pensi addirittura che ti donino. Le ringrazi, perché l’evoluzione che deriva dal dolore è una trasformazione unica e sorprendente che mette in contatto con il sé più autentico. Ma a che prezzo? Ci sono altre strade per evolvere. E le cicatrici restano addosso. Da qualsiasi lato tu scelga di guardarle sono sempre la conseguenza, più o meno bella, di una ferita rimarginata. Non ti definiscono, ma fanno parte di te. Questa è la mia testimonianza di ciò che per me è stata la ginnastica, e non solo. Un viaggio che si è interrotto solo nel momento in cui mi sono guardata alla specchio e nel non vedermi più mi sono fermata. Mi sono finalmente riconosciuta come persona, come donna e come bambina. Perché sto imparando solo ora, a 32 anni, ad essere bambina e ad essere donna, a dare voce a ciò che sento e ai valori che mi muovono. Come il rispetto. Di se stessi e di ogni vita che si incontra nel cammino. Il rispetto delle emozioni, dei pensieri, del corpo, dei cambiamenti, della crescita. E del futuro. Perché a chi allena viene donata l’opportunità e la responsabilità di gettare semi per il futuro dei bambini. Non per il futuro sportivo, ma per il futuro emotivo, relazionale e di autorealizzazione di bambini che saranno un domani uomini e donne e che avranno visto germogliare dentro di loro qualsiasi tipo di seme sia stato piantato nella loro evoluzione. Mi sono ritrovata a vivere abusi da ginnasta, a rischiare di riproporli perché era l’unica modalità che conoscevo da allenatrice e ad oppormi senza fare omertà.

In tutto questo c’è […] che mi teneva ferma per il collo mentre mi tirava calci sulle ginocchia perché probabilmente non mi facevano abbastanza male. Oppure mi chiedeva se non mi sembrava di esagerare a prendere tutti quei broccoli, dopotutto mi ero allenata solo 4 ore quel giorno. Oppure mi regalava una sberla in pieno viso per non aver eseguito in modo tecnicamente corretto un elemento, per insegnarmi che la testa in volo deve stare al posto giusto.

In tutto questo c’è anche […] che mi faceva allenare con il giubbotto da 10 kg addosso per farmi amorevolmente capire che i kg in eccesso “pesano”. Come se non lo potessi capire da sola ogni giorno quando mi metteva sulla bilancia e il numero saliva grazie ai disturbi alimentari che ormai avevo sviluppato.

In tutto questo ci sono anche io che, pur promettendomi di non riproporre la stessa modalità, finivo per arrivare a un centimetro dal riproporla un giorno sì e l’altro anche. Sia con me stessa che con le mie atlete.

In tutto questo c’è però anche il mio percorso di crescita individuale. Fino ad arrivare a conoscere […] che oltre alla bilancia aveva anche un bel quadernino. Che cresceva bambine in preda alla sindrome di Stoccolma. Ma sempre per il loro bene, perché dovevamo capire fin da subito che il controllo è una cosa buona e giusta, che il rinforzo negativo è più funzionale perché più veloce per raggiungere il risultato e che la manipolazione è l’unica via.

Nel mio percorso c’è tutto questo e molto altro. Fino ad arrivare però al mio riscoprirmi, alla mia lotta dall’interno contro certe persone più che contro certe modalità. Una lotta che continua anche ora, in maniera silenziosa. Scegliendo di allontanarmi da ciò che non mi appartiene, scegliendo ogni giorno di vivere una realtà che si sposa con ciò in cui credo. E scegliendo ogni giorno con cura i semi da far germogliare. Negli altri, ma anche in me.